The Project Gutenberg eBook of Memorie d'un disertore, vol. 1/3

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Title: Memorie d'un disertore, vol. 1/3

storia d'una famiglia di patriotti

Author: Giuseppe Guerzoni

Release date: July 17, 2025 [eBook #76516]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1871

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)

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MEMORIE D’UN DISERTORE VOLUME I.


MEMORIE D’UN DISERTORE

STORIA D’UNA FAMIGLIA DI PATRIOTTI

NARRATA

DA

GIUSEPPE GUERZONI

VOLUME I

MILANO
F. TREVES, EDITORE
1871.


Proprietà letteraria.

TIP. TREVES



INDICE


[5]

STORIA DI QUESTO LIBRO

Questo libro, quale che siasi, ha una storia che il fortuito riflesso d’alcuni nomi e d’alcune date rende non del tutto volgare.

Esso fu scritto a Caprera, nell’inverno del 1863, e potrei dire quasi interamente pensato sulla cima d’uno scoglio, dove andava tutte le sere a guardar il sole che tramontava nel mare, o Garibaldi che nettava, pochi passi lontano, le foglie degli aranci arsi dal libeccio.

Nella primavera di quel medesimo anno accompagnai Garibaldi in Inghilterra, e non sapendo a chi confidarlo, portai meco il mio manoscritto. Nel ritorno, tragittando la Francia, una cassa di libri del Generale, dono ricchissimo della ammirazione britannica, caduta probabilmente in sospetto alla polizia napoleonica, andò misteriosamente perduta. In quella cassa v’era anche il mio povero manoscritto.

Se non che, la prima parte del romanzo, Il Padre: [6] era stata giù pubblicata nelle appendici del Diritto, e poteva dirsi salva; ma la seconda, era irreparabilmente andata, e Dio sa in che mani?

Ora, di tutto questo, al lettore non importerà probabilmente nulla; ma io padre, non guardo se il mio figliuolo era bello o brutto: l’ho perduto e lo rimpiango.

Tuttavia, il meglio sarebbe stato rinunciare per sempre a una risurrezione impossibile; e se non vi fosse stato in quel romanzo qualcosa di mio, che mi rincresceva veder morire, senza nemmeno un’ora di luce, mi sarei forse rassegnato. Poi, a poco a poco, anche la vanità d’autore cominciò a farmi sentire il suo prurito, e finalmente, nel 1867, mi decisi a rifare tutta la parte rimasta in Francia.

Ora, ma ora soltanto, dopo due o tre pubblicazioni, m’avveggo che fu uno sproposito, perchè anche, a parte tutti gli altri difetti, conviene proprio confessare, che non si può ripigliare, dopo quattro anni, un’opera d’arte, — di scienza sarebbe un altro conto, — senza che l’unità di stile, di colorito, di forma insomma, scompaia interamente, ed anche quella de’ caratteri e de’ concetti si alteri profondamente.

Da ciò, quell’enorme distacco che corre tra la storia del padre e quella del figlio, e che le farebbe credere uscite da due mani diverse, e forse una peggiore dell’altra.

[7]

Ora, io so bene quello che attende un libro nato quasi come il mostro d’Orazio e non mi sogno nemmeno di implorare un’indulgenza che in simile caso sarei il primo a negare.

Ma in questo libro non ci sono soltanto le immagini scolorate e informi del mio pensiero; c’è un uomo di spirito e di carne; un esempio, tratto tutto dal vero, di virtù e d’eroismo, ma così vivo e potente, che può sostenere tutti gli sguardi e tutti gli assalti, e basterebbe anche da solo a impedire alla moralità d’una nazione di corrompersi mai.

Degli otto mesi vissuti a Caprera, forse i più belli, certo i più sereni della mia vita, due ricordi mi son rimasti nell’animo incancellabili: Garibaldi che scendeva tutte le mattine, zoppicando sul suo bastone, a lavorare, come il bonus cives, bonus Agricola di Marco Catone, un filare di viti, piantato da lui; e Garibaldi che tutte le sere, durante la cena, davanti a un pane cotto nel forno costrutto da lui, a una zuppa di pesce pescato da lui, a una brocca d’acqua condotta da lui, narrava colla semplice poesia d’un bardo, e colla scientifica precisione del nautico, questo o quell’episodio delle sue venture di mare; maravigliosa leggenda di battaglie e di tempeste, della quale forse i poeti futuri dei due mondi comporranno un Poema.

Ora, con quell’odissea nella memoria, con quell’uomo [8] nel cuore, col mare tutto all’intorno, ho fatto Battista Santafiori.

Esso non è Garibaldi, ma è la personificazione del suo spirito purificato dalle ombre della politica, spoglio dall’aureola dell’apostolo e del trionfatore. Garibaldi, uomo e marinaio; come si rivela nella semplicità della vita quotidiana e nella insospettata intimità dell’amicizia ai pochi che l’avvicinano senza pregiudizio e senza interesse, e sanno studiarlo anche ne’ suoi difetti, amarlo anche ne’ suoi errori, rimaner fedeli al suo nome e dirgli

Scevri di tema o di lusinga, il vero.

Frattanto ho pensato, che in questo contagio di letteratura fradicia e mefitica, un tipo d’uomo, giusto, sano e vigoroso, comunque impicciolito dall’artefice, non potrebbe fare che bene.

Respicere exemplar vitæ, morumque jubebo; quest’è la mia sola giustificazione.

Firenze, giugno 1871.

G. GUERZONI.


[9]

MEMORIE D’UN DISERTORE

PARTE PRIMA. IL PADRE

«La sua faccia era faccia d’uom giusto»

Dante.

I. ODISSEA D’UN GIUSTO.

Crede forse il lettore che quell’epoca sommovitrice del Mondo, che ha prodotto Washington e Fox, Beccaria e Condorcet, gli Enciclopedisti e i Re filosofi, Toussaint e Buonaparte, il primo dei Negri e il primo dei Bianchi, abbia generate le sole virtù, e le sole colpe, le sole grandezze e le sole miserie che la storia registra, e che degni di fama sieno stati soltanto gli uomini il cui nome restò scritto sotto le statue dei Panteon e sulle arche dei Templi?...

Noi non lo crediamo!...

Legioni di genii benefici o malefici, di eroi e di mostri rigurgitano dal sobbollimento delle rivoluzioni, come da un mare in tempesta, [10] limo, alghe e conchiglie. Tutti compiono la loro prava o santa missione, e poi ripiombano oscuri, non visti, dimenticati, nel nulla. Al pari degli storiografi delle battaglie, i quali si credono sdebitati verso le migliaia dei forti caduti nella mischia denotandoli alla posterità coll’unico nome del loro capitano, gli annalisti della Umanità son paghi di compendiare nei simulacri di pochi le virtù ignorate dei più, e senza delle quali i privilegiati non sarebbero probabilmente mai usciti dalla mediocrità della folla.

Gran mercè se taluno sfugge all’intera notte dell’obblio raccolto in qualche scorretta e bizzarra leggenda popolare, o raccomandato alla memoria di numerati amici dalla pietosa fantasia d’un Poeta.

Noi pertanto sentiamo una invincibile diffidenza di quella storia casistica o aneddotica, la quale bruciando facili incensi a’ pochi idoli della fortuna e sulla fede di testimonianze, di continuo smentite e contraddette, concentrando sul capo di alcuni prediletti l’aureola della gloria, pronuncia un’empia sentenza d’obblio contro tutti quelli le cui gesta, confuse nella gloria comune delle moltitudini, non giunsero fino a lei.

Questo modo di fabbricare la storia è proprio di quella scuola che colloca l’universo sopra tre piani; alla cima un Dio sempre querulo e aggrondato, al secondo i suoi profeti dispensatori in nome suo di favori e di castighi, al basso la vile moltitudine genuflessa e plorante, che attende le bricciole di civiltà o le faville di luce che i potenti vicarj della [11] divinità lasciano piovere dalle loro cornucopie sotto il nome di Riforme.

Questa scuola conduce intellettualmente all’immobilità, socialmente al pariato, politicamente al despotismo, moralmente al fatalismo, e sebbene essa — del pari che la filosofia che le serve di base — più non professi apertamente i suoi principii, pur non tralascia di dedurne mascheratamente le stesse conseguenze. A Roma essa si noma «dogma», a Pietroburgo «Knut», in Francia «saggezza imperiale», in Italia «maggioranza legale». Dappertutto i popoli sono allevati a questa scuola: stendere la mano all’elemosina dei Re; dappertutto Minerva figlia di Giove è tratta a frugare negli avanzi del vaso di Pandora figlia di Vulcano. Portato Dio fuori dell’umanità era logico portare la sovranità fuori dei popoli.

Alto là!... Non c’è china più sdrucciolevole di quella del filosofare.

Una volta posatovi un piede bisogna scendere a frana; e buon per noi che il rispetto dei lettori e nostro è venuto, speriamo, a rattenerci a tempo.

Del resto tutto questo non avremmo detto se il padre del nostro protagonista non fosse stato uno di quegli uomini ingiustamente puniti dall’obblio e al quale soltanto le sventure del figlio valgono queste pagine di una tarda, insufficente rivendicazione.

Ricorda il lettore

Il dì ch’entro a Portoria

Agli Alemanni il petto

Rompeva il sasso rapido

Del fiero giovinetto?

[12]

Or bene: ei rammenterà pure che l’esempio di Balilla trovò pochi giorni dopo, nella città stessa, seguaci ed imitatori, un pugno di giovinetti eroici come lui. — Genova allora era un semenzajo di Davidi de’ quali la storia non ci ha conservato che un solo nome, il più ardito e fortunato di tutti: Pittamuli.

Ma alla dimenticanza della storia suppliremo noi rammentando che nel drappelletto di quei fanciulli i quali facevano a ciottolate volgere le spalle ai giganteschi granatieri di Cesare nell’osteria di S. Benigno, il più tenero di tutti era un giovinetto di otto anni, biondo, agile e vivace, che i compagni chiamavano ora Baciccia, vezzeggiativo più ancora che corruzione di Battista, ora Murena soprannome trionfale accordatogli dagli emuli per le molte prove al nuoto, nella quale palestra sembrava potesse essere appena superato dal celebre pesce ghiottornìa dei triclinii romani, e di cui Orazio aveva tante volle cantato le delizie.

Però il nome vero del commilitone di Pittamuli era Battista Santafiori. Da nuotatore a marinaio non c’è che un passo, e Battista a 12 anni, perduti i genitori pescivendoli che avevano aspirato a fare di lui un avvocato della serenissima repubblica, vanità comune a tanti babbi, s’imbarcava a bordo del Costante, uno dei brigantini genovesi più velieri che salpasse per Nuova-York a quei giorni.

Voler narrare tutte le avventure di Murena sarebbe per sè sola materia di un grosso volume, e a noi non importa qui che sbozzarne i tratti principali affinchè ciascuno possa conoscere dalla semenza il frutto, dal padre il figliuolo.

[13]

Corse tutt’i mari d’America, prima mozzo e poi marinaio, a bordo dello stesso brik sul quale s’era imbarcato. Conobbe con esso le brezze costanti degli alizei e le calme canicolari dell’equatore, guardò senza impallidire la faccia irata della tempesta, passò piegando la vela innanzi ai terribili colpi di vento del golfo del Messico e duellò di destrezza coi tifoni del mare della China; interrogò divinando, non comprendendo le misteriose correnti che forse sono i fiumi sotterranei dell’Oceano[1]; risolcò le vie che i due Caboti avevano insegnate e ripercorse la rosa avventurosa di Colombo. Rasentò la Terra del fuoco di cui Magellano aveva aperto il sentiero; risalì le corsie delle Amazzoni e del Mississipì, e dalle gabbie del suo legno misurò gli sterminati piani di Caracas ora aridi come il deserto della Libia, ora verdeggianti come una pianura lombarda; udì nei dintorni delle Amazzoni il bramito del jaguar notturno e non fremette; entrò nelle temute acque del golfo Tristo; ascoltò il muggito delle, inesplorate ancora, bocche dell’Orenoco, e sentì quella musica solenne e terribile rispondere come una misura al battito del suo cuore; aspirò dalle vergini selve le balsamiche emanazioni del banano e del sicomoro, e sceso nei giorni di calma alle prossime estancie, incrociò la prima occhiata d’amore colla giovane brasiliana che gli preparava nella ciotola casalinga il natio maté.

Addentratosi nelle pianure per attingere acqua, [14] vide saltellare intorno a sè torme di cavalli, di gazzelle e di bovi, stupidi, curiosi, confidenti, allegri come tutti quelli che non conoscono il giogo, nè l’odio: da Boston a Lima, da Madagascar a Canton, navigando, studiando, lavorando, confrontando, pugnando senza posa col mare e colla terra, coi geli polari e coi calori tropicali, e ad ogni ora colla morte; valutando la vita come un soffio, ma il vivere come un dovere e una missione; educato al gran libro della natura, fortificato dall’aspetto quotidiano del pericolo, raggentilito dalla frequente comunanza colla sventura; nelle vaste solitudini avvezzo a non interrogare altro giudice che la coscienza, a non avere altra religione che la virtù, ma pur vedendo nella magnificenza di tante notti, nello splendore di tante aurore, dovunque portava la vela, un raggio di Dio; Battista Santafiori, o, come lo chiamavano i suoi marinai, capitano Baciccia, divenne in dieci anni di navigazione non diremo soltanto il più audace ed esperto marinaio del suo tempo, ma, ciò che è più grande ancora, uno di quegli uomini singolari dotati della benignità dell’agnello e della forza del leone, dalle idee limpide e semplici, dalla coscienza netta e leale; il cui occhio sorride e scuote; la cui voce accarezza e spaventa; il cui contatto vi mortifica per voi, vi esalta per l’umanità; che vi riconciliano con tutto ciò che vi è di più generoso, di ideale nell’anima, che vi susurrano a ogni ora anche quando son muti: «v’è un dovere», che forzano i più scettici a ripetere il bel verso d’una tragedia:

Virtude non è dunque un nome vano?...

[15]

II. IL CAPITANO GORDIGLIA.

E, cosa rara, divenne ricco.... Il capitano del brigantino sul quale era partito nel 1748 da Genova era invecchiato; le fatiche soperchiavano già le sue forze, ed egli, con rammarico sì, ma doveva cedere all’impero degli anni e ritirarsi dal mare. Il vecchio marinaio, chiamato un giorno Murena che era già secondo a bordo della sua goletta succeduta al Costante, divenuto invalido anche esso, gli parlò così:

— Senti, Murena mio!... Tu vedi che lo scafo è in rovina; che la carena fa acqua e che non v’è catrame per tapparla. Bisogna tirarsi in secco e aspettare che venga l’ora d’essere gettati al fuoco.

— Che cosa volete dire, capitano Gordiglia? — questo nome che Murena gli dava era il suo.

— Eh! voglio dire che io navigare non posso più. Non c’è da scuotere la testa, caro Baciccia, la è così.... E siccome la goletta se ne ride delle raffiche e tu sei più solido della goletta e di me, così ho deciso di nicchiarmi in alcuno di questi isolotti e di mandare te attorno a portar cannella e caffè in luogo mio.

— Vi ringrazio della fiducia, ma pensate che vostro figlio....

— Mio figlio è un ragazzaccio, un buono a nulla; non dico il cuore, ma la testa... ah la testa è più matta d’un delfino e più vuota [16] d’un canotto.... e la mano non ti dico.... bucata come un canestro. Egli sarebbe capace in una settimana di mangiarsi la goletta colle sartie, i paranchi, e tutto. Quando c’era io a tenerlo in riga, tant’era! filava al lasco; ma senza di me sarebbe come mettere in mare un bastimento senza timone.

— Scusatemi, capitano, ma io non la penso così; vostro figlio ha più bisogno di dolcezza che di rigore. Un amico che lo trattasse con amore potrebbe trasfigurarlo da cima a fondo. Credete a me: Livio non vale meno degli altri; ma l’asprezza finirà col mutare in colpe i difetti di gioventù. Promettetemi una cosa, capitano, e accetto il comando della Saetta — così chiamavasi la goletta di Gordiglia.

— Parla — fece questi.

— Lasciatemi prendere a bordo come secondo il vostro Livio.

— Fa come vuoi — rispose il vecchio capitano senza poter dissimulare la contentezza che provava nel sentire che suo figlio non era indegno della stima del suo amico — ma te ne pentirai!

— Spero di no....

E il patto fu conchiuso.

Una settimana dopo, capitano Gordiglia aveva comperato in una ridente vallata di Haiti, poco discosta da Porto Principe, una casa, un podere, de’ boschi e delle mine, e vi si era installato. La Saetta, carica di caffè di Portorico, comandata da Murena e in secondo da Livio, con una fresca brezza di Sud-Est faceva vela verso lo stretto di Gibilterra.

Erano già da parecchi giorni ancorati a Cadice [17] e alla vigilia di partirne carichi di lana e di crini per l’Inghilterra. Capitano Murena attendeva sul ponte alle operazioni d’imbarco delle mercanzie, mentre il suo secondo stava a terra per sorvegliare il trasporto. I consigli amichevoli e le cure paterne di Baciccia non avevano ancora ottenuto gran frutto sull’animo sbrigliato e indomito del suo giovane allievo, ma egli, senza mai indietreggiare d’un palmo, quando trattavasi di mantenere rispettata la sua autorità a bordo, non cessava mai dal credere che l’amore soltanto avrebbe potuto ravviare il giovane ricalcitrante.

Mentre adunque Baciccia-Murena attendeva alle sue faccende, ode da terra un tumulto d’alte grida e vede in confuso un gran tramenìo di gente. Passargli pel capo un presentimento, indossare una giubbaccia, far ammainare il canotto e gettarsi a voga arrancata sul molo, fu la cosa di pochi minuti.

Giungendo, egli s’accorse che non s’era ingannato. Era Livio che tutto scapigliato, lacere le vesti e la persona, imbrattato di polvere e di sangue, lottava disperatamente contro tre colossali facchini del porto, due dei quali lo tenevano per le braccia, mentre il terzo gli maciullava la faccia con dei terribili pugni che rintronavano come colpi di mazza sul ceppo.

Nel momento in cui Livio s’accasciava sotto l’ultimo dei colpi sferratogli in piena faccia, compariva il capitano Baciccia. Preso al collo il primo dei facchini che gli cascò sotto, con una stretta e una giravolta lo mandò ruzzoloni, cogli occhi fuori dell’orbita, cinque passi lontano. Tirato un pugno nel petto ad un altro [18] gli tolse per più minuti il fiato, mentre del terzo egli con Livio già rinsensato non provarono gran fatica a sbarazzarsi.

La folla che batteva le mani alla sconfitta di Livio, fece largo, ringhiosa ma circospetta, al nuovo gladiatore. Baciccia presosi sotto braccio l’amico suo, che a stento poteva sostenersi, passò in mezzo alle genti gettando intorno a sè una di quelle occhiaie che parevano dire: «Non mi toccate!» e si rimbarcò.

Adagiato, medicato il suo amico nella sua cabina, Baciccia chiese:

— E cosa fu?....

— Oh, capitano.... le solite! — rispose Livio.

— Cioè?....

— Passava per la strada una sgualdrinella; una di quelle che in questi paesi chiamano Manolas; io le ho voluto pinzare il fianco, e i ganzi o i parenti mi sono rovinati addosso.

— Ma Livio mio!... chi ti dice che quella donna sia una sgualdrinella e non una fanciulla onorata?.... E quand’anche fosse stata una di quelle sciagurate, non sai che non si insulta mai nemmeno al disonore, perchè anche il disonore ha diritto al perdono?... E non sai che anche la prostituzione ha il suo pudore? E lasciamo là, questa parola prostituzione. Quanto a me trovo che la società ci ha la sua gran parte.... Ma poi insultare una donna, Livio! e non ti viene in mente tua madre e tua sorella?... ed hai dimenticato che gli Spagnuoli sono la gente più gelosa del mondo?... Ma figlio mio!... È già la terza volta che io ti levo da simili brighe, e ti ricorderai che nella taverna di Santa Padilla a Oporto mi [19] sono buscato una coltellata al braccio per te. Allora m’avevi promesso di non ricadere più in codesti bordelli, e dopo un mese ci ricapiti. Tuo padre è un uomo che non ha mai mancato ad una promessa. Imitalo.

Livio lo guardò lungamente in silenzio. Poi mosse le labbra come avesse l’intenzione di rispondere, ma non seppe mandar fuori altro che un sospiro.

Battista comprese quel sospiro.

— Accetto — disse — la tua seconda promessa e son certo che la terrai. Ora lascia che ti ricambi queste compresse. Non ci sono che i bagnuoli per queste ferite.

Livio ritentò un’altra volta di pronunciare almeno un grazie, ma un’altra volta gli s’ingroppò nella gola la voce. In luogo della parola gli uscì un gemito, e dietro di esso un’onda di pianto copiosissima che allagò gli origlieri, la cuccetta e il petto del suo amico, chino su di lui a medicarlo.

Quel pianto fu come un rivo che scava nella roccia un sentiero e lo rende accessibile. La strada del pentimento era aperta; il buon angelo poteva inoltrarsi; il cattivo ne era già fuggito via.

Da quel giorno infatti Livio cambiò temperamento, come una stanza malsana quando l’inondano l’aria e la luce. Egli prima d’allora non amava Battista; l’invidiava anzi per la sua perizia, il suo valore, il suo posto di capitano che, secondo lui, eragli stato usurpato.

Ma ora ogni sentimento malvagio erasi dileguato dall’animo suo; egli si ricordava quanto aveva fatto per lui quell’uomo così buono e [20] così onesto, sentiva dentro di sè ch’egli l’avrebbe amato per tutta la vita.

Irrequieto, violento, attaccabrighe, giuocatore, donnaiolo, mediocre marinaio, mediocrissimo ufficiale, Livio proponevasi di tornare umano, prudente, lavoratore, non indegno dell’arte che suo padre avevagli messa fra le mani, non indegno di aver un posto nella famiglia dei giovani onesti.

Due anni dopo questa scena, in un bel pomeriggio d’estate, capitano Gordiglia montato sopra uno dei pianori del Cobao fissava a occhio nudo un punto bianco sull’orizzonte. Aveva veduto e rivedeva ogni giorno tante vele sopra quei mari che non si poteva capire la causa di quella straordinaria attenzione. Ma il vecchio capitano aveva un presentimento; e nessuno poteva togliergli dal capo che quella stella bianca a fior d’acqua non fosse la Saetta che tornava dal suo viaggio in Levante.

Egli non s’ingannava. La sera del giorno stesso la Saetta, ad onta di un vento un po’ fresco, entrava a vele spiegate e senza nemmeno piegare un terzarolo, nel porto di San Domingo dal quale era partita.

Ci sarà volentieri perdonato se non diciamo le feste, gli abbracciamenti, i racconti, i brindisi che si fecero allo stabilimento del signor capitano, così chiamavano gl’italiani la casa sua, ma noi non vogliamo lasciarci smuovere dal proposito di abbreviare questi episodii che son lontani dal nostro tema e che accenniamo soltanto per l’intelligeoza delle cose future.

Quando s’ebbe pianto, riso, novellato, bevuto, brindato; quando Gordiglia ebbe abbracciato [21] tre o quattro volte il suo Livio, rinsavito e rinnovato, condusse il figlio e l’amico in un altro stanzino che servivagli di studio e disse loro:

— Lasciate che vi benedica entrambi. Voi Battista per il bene che avete fatto a mio figlio; tu Livio per esserti reso degno dell’affetto di tuo padre e di quest’uomo. Quanto a me sono una carcassa di cui fino i sorci non vogliono più sapere. Uno di questi giorni me n’andrò anch’io a ingrassare gli aloè e buona notte.... Ora sentitemi. Voi, Battista, mi riportate due cose che appartengono a voi e non a me. — Un milione e un altro figlio tutto diverso da quello che io vi aveva dato. Io però sono un egoista e il figlio me lo voglio tenere io — il milione lo do a voi e non voglio che facciate cerimonie.... Non è che io voglia fare un prezzo al vostro benefizio. Tutt’altro!.... so bene che voi a Livio non avete salvato soltanto la vita, ma l’onore, e ciò è impagabile. Ma infine, ditemi voi, Battista, che avete studiato più di me, che cosa si può dare nel mondo per compenso delle buone azioni?.... La gratitudine?... l’avete!.... L’amore?... ne avanza. Prendetevele pure tutte queste cose; ma fate i conti e vedrete che un milioncino d’accanto non può starci male.

Battista Murena aveva tentato invano di interrompere questo discorso buttato fuori come una cannonata; però, quando il vecchio ebbe finito, egli placidamente rispose:

— Quel che ho fatto per vostro figlio era mio dovere, e il compenso del dovere adempiuto è la buona coscienza. Del resto il merito [22] principale è della fortuna, eppoi di queste due braccia, che se avessero pesato meno, di Livio e di Baciccia non ce ne sarebbe più l’insegna. La è così, capitano mio. Non credete però che io voglia fare il santo e ascoltatemi. Come marinaio, se ho avuto fortuna e se lo merito, datemi pure un compenso: io lo accetterò; ma non maggiore di quello che mi viene e che ho guadagnato. Dare a me solo il milione che abbiamo razzolato in tre, la vostra goletta, Livio ed io, sarebbe un’ingiustizia. Di più ci sono dei marinai nell’equipaggio che hanno lavorato più di tutti noi insieme, e se il mondo andasse come dovrebbe, cioè se il più grosso non dovesse sempre vivere alle spese del più piccolo, sarebbero i soli degni di ricompensa.

— E va bene! Cosa dite debba fare per essi — interruppe il vecchio...

— Per oggi una buona mano qualsiasi, una specie di strenna per il buon viaggio, in seguito una pensione per la vecchiaia. Io vi dirò i nomi dei più fedeli, dei più anziani e dei più bravi che sgraziatamente son pochi. Per me gli è un altro negozio. Quando salpai per l’Europa fu convenuto, a bocca, perchè la carta fra noi sarebbe stato un sacrilegio, che il quinto del guadagno netto sarebbe toccato a me, i salari di capitano per giunta. Io non voglio, non posso pretendere più del pattuito; ma i miei salari li cedo ai marinai per la mia parte di regalo.

Capitano Gordiglia e Livio, insistettero, disputarono, pregarono, finsero di andare in collera; fu inutile, capitan Murena non volle [23] accettare che 150,000 franchi, avendo preso, per il resto del conto, la Saetta che malgrado la lunga campagna era uno dei migliori di bandiera americana. I marinai ebbero ciascuno una manata di scudi, e il più vecchio di tutti, già impotente, la pensione. Il giorno in cui toccò la prima mesata, saputo che quel beneficio veniva dal capitano Baciccia, egli sclamò:

— Quest’uomo è troppo generoso!... gli capiterà male.

Dopo un mese di riparazione e di riposo, Murena abbracciava sul molo di Porto Principe il vecchio Gordiglia e riprendeva colla Saetta, proprietà sua, la via fortunosa dell’oceano. Livio, sebbene sicuro del suo mestiere, per non scostarsi dal padre più grave d’anni e d’acciacchi, faceva con un piccolo brik la navigazione fra le Antille e le coste del Messico.

I primi viaggi di Baciccia furono fortunati, ma nell’arcipelago indiano un violento tifone lo sbalestrò contro una delle tante secche che perfidiano sotto quelle acque e gli fu giocoforza gettar la mercanzia per cavar fuori la goletta già trafitta a morte anch’essa e ormai impotente alla navigazione dei grandi mari.

Coi fondi che aveva in deposito presso i suoi corrispondenti si costruì un altro legno, e ripigliò in capo a pochi mesi la sua corsa e i suoi traffici, e la fortuna manomessa ristorò prontamente.

Ma in uno dei piccoli porti della Provenza francese, due o tre anni dopo, uno degli stessi marinai che aveva beneficato, gli rubò il portafoglio che conteneva lettere di credito per circa mezzo milione; e allora si trovò col solo [24] bastimento e tranne alcune migliaia di lire e un po’ di fiducia presso i suoi corrispondenti, costretto a ripigliare da capo.

E riprincipiò senza scoraggiarsi nell’avversa come senza insuperbire aveva perseverato nella buona fortuna. Giorgio, il figlio suo, il nostro protagonista, trovò più tardi nelle memorie di suo padre, dalle quali desumiamo questi cenni, un foglio che narra per disteso la storia di quel furto e la fine di quel ladro.

«Una sera — dicono le ultime pagine del racconto — pochi mesi dopo il nostro installamento sulla riviera di Nizza, mi si affacciò, poco discosto da casa, una donna sui quarant’anni, smunta come la fame e macilenta come la febbre, cenciosa e sudicia come lo è quasi sempre la miseria o la colpa. Essa, gettandosi ginocchioni attraverso i miei passi, con uno scoppio di singhiozzi si pose ad articolare alcuni suoni che erano più gemiti che parole. Io la rialzai e la incoraggiai a parlare.

«Mio marito è da tre mesi malato... e non dico moribondo, perchè spero nella Madonna benedetta... In questi tre mesi ci siamo mangiato tutto, fino i chiodi delle muraglie... figuratevi, signore, se possiamo pagare l’affitto di casa... Ma non la vogliono intendere... siamo in sei, noi due e quattro bambini, e il più alto ha dieci anni..... Eravamo ricchi; molto ricchi! ma oggi siamo più miserabili di San Rocco; colle mie vesti copro i miei figli, e la mia gonna serve di coltre al letto di mio marito... Come si fa a pagare?.... Eh!.... sì!... Gli uscieri non capiscono nulla... e vengono a gettarci fuori di quel po’ di casa che ancora ci [25] ripara... Casa! dovrei dire «canile...» ma almeno ci si sta al riparo dal freddo e dalle tramontane, non è vero?... Oh mio signore... aiutatemi.... dicono tutti che siete un santo.... perchè i vostri nemici sono i ricchi.... non i poveretti... Pensate... signor mio benedetto, che se ci cacciano fuori; mio marito muore... ed io e i miei figliuoli siamo sulla strada.

«La lasciai sfogare e poi le dissi: Non affliggetevi buona donna, ci si rimedierà, e accompagnatemi verso la vostra casa.

«La seguitai e dopo un quarto d’ora di cammino mi trovai in una delle tante caverne sordide affumicate e pestilenti, dove due terzi del genere umano marciscono e muoiono.

«Sul buco dell’antro — che pareva una porta — stavano due uomini occupati a scrivere sopra una cassa tarlata che serviva da tavolino, credo un processo verbale.

«Quando mi videro s’alzarono con rispetto. Io dissi loro: « Quanto vi deve questa gente?...»

— Duecento franchi!...

«Li aveva con me e li sborsai; i due uscieri ripiegarono i loro fogliacci e se n’andarono.

«Allora m’accostai al giaciglio dell’ammalato per vederlo... Quale sensazione!.... Egli aveva gli occhi sbarrati, la bocca spalancata e bavosa, i capelli irti, mentre un rantolo uscivagli fischiando dal petto. Voleva dirgli qualche parola per acquietarlo, quando un guizzo di luce, una larva altra volta veduta passò davanti a’ miei occhi e mi arrestò.

«Io scopriva in quel miserabile morente il ladro del mio portafogli.

«Egli pure m’aveva riconosciuto, e snodata [26] alla fine la sua lingua, ululava tremando e balzando dal suo letto:

«Grazia!... Grazia!?..

«Io domai un primo impeto d’avversione, gli stesi la mano e — abbassando la voce perchè i suoi figli non mi udissero — gli dissi:

« — Vi perdono!... Voi avete espiato;... contate su di me... Se guarirete e diverrete migliore avrete un amico... Addio!...

«Lasciai alla sua donna un po’ di moneta che m’era rimasta in saccoccia e partii. L’indomani egli era morto, e la moglie trambasciata venne da me a raccontarmi che l’ultima sua parola era stato il mio nome.

«Io feci ogni sforzo per togliere quella famiglia alla miseria, perchè la legge che punisce nei figli la colpa dei padri; perpetua l’odio e la vendetta sia essa insegnata a nome di Dio o degli uomini, è iniqua e feroce».

III. PRESAGI DI RIVOLUZIONE.

Battista Santafiori, ripetiamolo, aveva l’animo temprato come le molle d’acciaio, più sono compresse e più scattano. Egli s’era fatto del suo legno un amico, dei venti una famiglia, dei pericoli una festa, del mare una patria, e come si suole delle cose caramente dilette, accettava volentieri da esse i torti e le traversie in cambio dei molti gaudi che gli avevano arrecato. Ma per dire tutto, Battista non [27] era avido di guadagno; ne’ traffici adoperavasi con perspicacia, ma con la più scrupolosa illibatezza e persino con disinteresse; non rifiutava dal cogliere il frutto de’ suoi sudori, ma il denaro non lo ingolosiva e non aveva mai pensato in sua vita di far fortuna. Quando fu derubato cercò egli stesso il ladro, ma non lo perseguitò, non lo denunziò, non volle sapere di polizia nè di tribunali, e la sera in cui fu spogliato cenò del miglior appetito dicendo «che aveva un nemico di meno a cui fare la guardia».

Tornò dunque a navigare e a trafficare e in altri dieci anni rifece il perduto. Nelle sue memorie di questo periodo troviamo, che avendo incontrato sulle coste del Senegal un mercante negriero il quale avevagli proposto un trasporto di negri per 10,000 dollari, egli lo sfidò al coltello, lo uccise e lo gettò in mare.

Nel 1793 — aveva allora 36 anni — egli approdava di nuovo a Porto Principe, e i primi passi furono verso la casa del suo amico; ma il bravo Gordiglia non c’era più e in luogo suo gli vennero incontro Livio figlio, una bella signora e una bambina.

— Ti presento mia moglie e mia figlia; Rosalia, questo è il mio migliore amico.

Dopo le cose affettuose e le notizie, venuta la sera, Battista prese un’aria di gravità che sposata alla sua bonomia pareva ancora più solenne, e incominciò:

— Livio! Ho deciso di fissarmi anch’io in America.

— E di prender moglie? — fece Livio sorridendo.

[28]

— Perchè no! Ma quando avrò trovata la donna, allora se ne parlerà; per ora non è di questo che si tratta. Non voglio che mettere in terra quei soldi che ho razzolato in mare e cercarmi un campo qualunque dove piantar la tenda.

— Avete smessa anche voi l’idea di tornare in Italia?...

— In Italia?... A far che?... Dove?... A Genova?... Alla prima occasione mi vendono come hanno venduto or son pochi anni la Corsica alla Francia[2]? a Milano?..... ci sono troppi cicisbei e le carezze di Maria Teresa mi fanno tanto paura quanto la inquisizione e i Gesuiti di Roma. A Torino, vi regnano i cortigiani, e i tamburini. A Napoli i Borboni, sinonimo di birboni. Fossi sì gonzo!... Ma ci fosse almeno una Italia!... Certo non me ne starei di qua dell’Atlantico — e preferirei il tozzo di pane nero nel mio paese, a tutto l’oro del Perù. Almeno un angolo dove ripararsi al sicuro dai preti, dai birri, dagli imbecilli, e dagli avventurieri. Io a nove anni ho cominciato a menar le mani pel mio paese; ed esso sebbene si chiami ancora la serenissima repubblica di Genova, è più schiavo di prima. Per ora in Italia no! Se verrà ch’essa si svegli, dovessi vendere l’ultimo bozzello del mio brick, correrei anche io al mio posto, perchè la patria non si può mai abbandonare.... Ma per ora alla larga... Ah!.... — E qui si passava una mano sulla fronte come per afferrarvi un’idea surtavi all’improvviso. — C’è inoltre un’altra [29] ragione — continuava — ma te la comunicherò quando saremo soli.

All’indomani i due amici passeggiavano lungo un viale di palme. Battista parlava concitato e quasi ispirato; Livio ascoltava senza fiatare, ma animato da una interna commozione facilmente riconoscibile.

— Non bisogna rifiutarsi a questa missione: il vecchio mondo si trasforma, ed io son sicuro, non a profitto dell’errore. Io che ho viaggiato ne ho veduto in tutti i paesi i segni precursori; società segrete solcano la terra; e leghe filantropiche si stringono da un capo all’altro del mondo....

A Londra Wilberforce e Fox parlano pubblicamente della emancipazione dei negri; in Francia v’è un pugno d’uomini ancora oscuri, ma che un giorno saranno i re del pensiero moderno — savi, stolti, diversi, ma tutti terribili, che rinnovano la favola dei giganti e sovrappongono montagne a montagne d’idee. I filosofi si danno la mano e i principi tremano. Un copiatore di musica, Rousseau, ha ricevuto nella sua casipola le visite della corte di Luigi XV; un epigramma di Voltaire mette sossopra tutta la corte di Roma; un dramma di Beaumarchais getta lo spavento nei nobili e nei re... Infine, non importa che io ti dica tutti i loro nomi perchè essi si chiameranno in tutti i secoli futuri con un nome solo: l’enciclopedia. Anche la nostra Italia dice il suo verbo in codesta buona novella. Un marchese di Milano, Beccaria, butta fuori un libercolo contro la pena di morte che onora la nostra patria assai più della bussola e del telescopio, e che un [30] giorno o l’altro sconvolgerà il mondo. Non basta. I re stessi, quelli che non sono affatto corrotti e imbecilliti, perdono la testa e vogliono essere, o fingono, riformatori e filosofi. Intanto ti so dire che alla corte di Luigi XIV si leggono le sentenze repubblicane di Bruto e si applaudono. Prova a viaggiare, prova ad osservare, prova ad ascoltare: anche senza volerlo ti cascano nell’orecchio delle parole che avevi perdute, o che avevi obbliate; Libertà — popolo — ragione — diritto — e talvolta sono marchesi e conti che le pronunciano, come un certo Bolinbroke e un certo Montesquieu.

Potrei continuare, ma non ti dirò più che una cosa sola: Volgiti alle colonie del Nord... non ti pare di sentire in lontananza il muggito d’un temporale... forse chissà!... chissà che non tocchi alla giovane America il suonare la sveglia. Certo noi siamo prossimi a un gran cataclisma. Noi siamo alle porte di un’era nuova, all’era dei popoli, alla nostra o Livio. Tutto ciò che è tarlato, vecchio, putrido, mefitico, è destinato a scomparire nella voragine, e noi dobbiamo esser pronti colla marra in mano per gettarvi sopra l’ultimo strato di terra. Non ti pare, o Livio, che noi siamo i primi soldati di questa battaglia; che ci va del nostro interesse, che la bandiera è quella delle nostre credenze? Orsù, Livio, non te lo nascondo più. Io mi sono buttato dentro in quest’opera durante i miei viaggi; ho impegnato la mia parola e non posso più retrocedere anche volendo. Conosco tutte le fila, sono amico di tutti i Capi, ho la parola d’ordine di tutte le congiure [31] e porto le notizie di tutte le società segrete degli innominati di Svezia e d’Inghilterra, dei filaleti di Francia, dei framassoni di tutto il mondo, i quali, profittando dei miei viaggi, mi hanno eletto il corriere della nuova propaganda.

E qui Battista mise a parte Livio Gordiglia de’ suoi progetti. Lo consigliò ad entrare nella frammassoneria, non tanto perchè egli prestasse fede ai riti e alle formole strane della società, quanto perchè considerava il titolo di massone un segno d’unione e un utile pretesto. Disse che lo scopo finale era l’emancipazione dei bianchi in Europa, dei negri in America, del popolo dovunque. Manifestò l’intenzione di comperarsi un terreno in qualunque degli Stati delle colonie inglesi, giacchè non amava nè gli Spagnuoli crudeli, nè i Francesi prepotenti, affine di potere più agevolmente propagare le loro idee, estendere la massoneria e formare un centro da cui potesse partire il grido della riscossa.

Frattanto egli darebbe la libertà a tutti i neri che potrebbe comperare, ma li farebbe lavorare nelle proprie terre per dimostrare coll’esempio quanto maggiormente produttore sia il lavoro del libero che quello dello schiavo. Altrettanto dovrà fare Livio per S. Domingo: si terrebbero in corrispondenza e conti d’ogni novella.

Così fu convenuto e Battista partì.

In sul principiare del 1794, noi lo troviamo installato in una vasta fattoria della Virginia poco lontano da Monte Vernon e i di cui terreni confinavano con quelli del piantatore [32] Giorgio Washington; capitano Murena aveva pagato 20,000 dollari quella tenuta che ora ne costerebbe il doppio.

Aveva trenta negri ed altrettanti bianchi impiegati nella lavorazione dello zucchero e del cotone. I bianchi erano di tutti i paesi, di tutte le razze, di tutte le religioni. Irlandesi e Tedeschi, migratori ab antico per bisogno, Italiani e Francesi venturieri per istinto, cattolici, protestanti, quacqueri, puritani, un pandemonio. Egli voleva che lavorassero, mangiassero, abitassero, vivessero sempre in comune fra di loro e coi negri, e non parrà vero, il più difficile non era ad amalgamare i colori, ma la religione. Tutta quella gente che adorava o bestemmiava un Dio diverso, offriva l’immagine di un serraglio di fiere sprigionate. Non ci volle che la fermezza di Battista per gettare un po’ d’amore in quelle anime ebbre di odio e d’intolleranza religiosa.

Ai negri poi, mano mano che gli venivano, faceva un discorsetto così: — Siete liberi... siete eguali a questi — e additava i bianchi — ed a me. Essi vi rispetteranno, voi dovete amarli. Io voglio che formiate tutti una sola famiglia.... e vi avverto che qui non ci saranno nè privilegi, nè differenze, le capanne sono vaste e sane, il pane sarà buono e sufficiente; medicine e conforti, se ammalate, non mancheranno; il salario in proporzione del lavoro. Se lavorerete poco, guadagnerete poco, se molto, molto. Ora io vi consiglio ad essere economi se volete trovare nella vecchiaia gli sparagni degli anni virili. Per i vostri bisogni, pei vostri interessi, pei vostri lagni nominate [33] fra voi o gli Europei degli arbitri e sarà questo il primo atto della vostra libertà. Io non ho che una proibizione a farvi: acquavite poca: mezzo bicchiere alla mattina e basta. Chi non è contento se ne vada pure. Io scaccerò il primo ubbriaco. Fra pochi giorni festa e banchetto di fratellanza. Siamo intesi!...

I negri o commossi dalla promessa di libertà o uzzoliti dalla prospettiva del banchetto, o per una ragione o per l’altra, gridarono unanimemente: «Viva il nostro Massa[3]» e lo nominarono presidente degli arbitri. Certo i battimani dei negri somigliavano assai all’applauso che si fa ai discorsi della corona; ma fosse stato pur vero, quando videro che quella corona manteneva insolitamente la sua parola, si affezionarono sinceramente e illuminati da quella insospettata luce di libertà risalirono dal tetro abisso di miseria, di depravazione, di ignoranza in cui la schiavitù e l’odio li avevano scaraventati. L’impresa di Battista riescì... Bianchi, neri, colorati, cattolici, protestanti si diedero la mano e si dissero fratelli; una vera società di mutuo soccorso s’istituì fra di loro coi loro risparmi; la piantagione prosperò; il nome di Murena divenne l’esempio e la meraviglia di tutti gli Americani. Fra di essi taluni lo fuggivano come un ateo; altri lo canzonavano come un matto; i più lo denunziavano come un uomo pericoloso e turbatore degli ordini costituiti.

Un uomo solo in quei dintorni pensava: e quell’uomo era Giorgio Washington. Quando i [34] due vicini s’incontravano sul confine dei loro poderi, il discorso cadeva sempre su quell’unico tema, e il futuro liberatore d’America sentiva qualcosa d’insolito muoversi dentro di lui quando Battista gli raccontava i prodigi della sua piantagione.

— Ad ogni modo — quest’era la conclusione di Washington — ad ogni modo oggi è troppo presto.

— Non è mai troppo presto signor Giorgio per compiere una giustizia — rispondeva il nostro marinaio; e l’uno convinto e l’altro dubitante, entrambi si separavano.

Il dubbio di Washington fu il cancro della sua patria; oggi l’America deve amputarsi o morire.

IV. IL TERRORE NERO.

Era trascorso un anno e palesavansi già i primi segni della riscossa delle colonie inglesi. La tassa sul thè e il bollo sulla carta erano stati posti; la resistenza legale incominciata, la Società dei Figli del lavoro istituita e propagata dovunque; il primo albero della libertà rizzato a Boston; riunito a Filadelfia il congresso per decretare la famosa dichiarazione dei diritti, novello codice delle nazioni; in ogni città manifestazioni popolaresche dappertutto segni di guerra; a Concordia ed a Lexington già apertamente scoppiata.

[35]

Battista aveva deliberato il da farsi. Egli corse da Washington e gli disse:

— La giustizia è con voi, ed io debbo seguirvi. Se la mia fortuna, il mio braccio, la mia vita valgono qualcosa, adoperateli. Se nella guerra avrete bisogno di marinai e di bastimenti, io e il mio brick ci poniamo ai servigi della rivoluzione.

Così fu; e da quel giorno Battista prese parte a tutti i combattimenti navali della guerra americana. Ebbe patente di corsa contro gl’Inglesi, armò in guerra il suo brick, e li perseguitò ora sui mari ora sui fiumi, ora vincitore ora vinto, terribile sempre.

Come le Colonie avevano deciso di non servirsi più delle manifatture della madre patria, così egli intraprese con altri legni due viaggi in Olanda, e da corsaro divenne contrabbandiere, assai più volentieri perchè una certa segreta ripugnanza contro il sangue parlava già nel suo cuore e ammolliva l’energica sua fibra.

Continuò così nella sua missione eccettuate poche visite alla sua piantagione ed a’ suoi negri fino verso la fine del novanta.

In quell’anno i negri davano i primi segni di vita e contemporaneamente le nuove della rivoluzione francese capitavano in America. Lafayette coi francesi preparavasi a tornare in patria; un grande vespaio di popoli ronzava intorno ai troni dei re.

Frattanto giunsero avvisi a Battista da S. Domingo che la levata dei negri era pronta. Chiese licenza a Washington e partì. Al suo sbarcare a Porto Principe una immensa colonna [36] di fiamme e di fumo annebbiava l’aere: urli selvaggi ferivano il suo orecchio: donne e fanciulli fuggivano per la campagna: erano i negri che si vendicavano della secolare ferocia dei padroni con ferocia ancora più inumana. Nessun bianco, nessuna casa di bianco era risparmiata; dove il ferro, dove il fuoco, dove la corda, dove la lama; la strage era cieca e sorda e non conosceva più nessuno, nè amici, nè avversari.

Battista pensò alla casa del suo Livio; essa era appunto nella direzione dell’incendio. Montò un cavallo e via ventre a terra sulla strada che guidava alla tenuta del suo amico. Era tardi, il fuoco avealo già avviluppato, e un coro di negri briachi di rhum cantava una feroce nenia di sangue, mentre altri ammonticchiavano i fasci d’una pira.

Battista giungeva nel punto in cui l’ultimo fascio era collocato.

I negri urlavano — «La donna!... la donna!...»

— Fermi — gridò Battista — quale donna?...

— Ah! un bianco, un altro bianco... alla corda, al fuoco...

Battista non si mosse, ma con voce tuonante intimò:

— Indietro forsennati!... Dov’è Toussaint, dov’è Cristophe?...

A questi nomi i negri si ristettero.

— Chiamatemi Toussaint — replicò Battista.

Un negro alto, robusto, grigio, dall’occhio vivo e dalle labbra meno grosse di quelle della sua razza, uscì da un crocchio appartato ed esclamò:

— Chi chiede di me?...

[37]

— Io!...

— Murena! — fece il negro levandosi il suo largo cappello di palma. — Gloria a lui, fratelli, egli è nostro maestro!...

I negri s’inginocchiarono con superstizioso rispetto.

— Dov’è la donna che si minaccia del rogo?... Parlate Toussaint!

— Dov’è la donna che si minaccia del rogo?... chiese questi alla sua volta.

Due negri partirono per cercarla.

— È un’empia rivoluzione quella che si inaugura col sangue. Dal sangue non rampolla fiore di libertà, bensì la gramigna ancor più velenosa d’una nuova tirannia. Rammentatelo Toussaint.

— Lo so!... fece sospirando il re dei negri — ma chi potrebbe dire a questo fiume di odii e di vendette ingorgato da secoli: «Arrestati!» Chi interpreta le intenzioni di Dio?... Non ha egli inviato il suo angiolo a sterminare in una sola notte i nemici del suo popolo?...

— Un Dio che si vendica, è un Dio bugiardo — rispose Battista che era mondo dalla lebbra biblica del suo amico.

I due negri ritornavano sostenendo una donna che recava nelle sue braccia un bambino. Era pallida come una morta, gli occhi le si erano sprofondati entro due cerchi lividi; i denti dibatteva come per febbre: camminava a guisa di sonnambula, e malgrado ciò era impossibile non ammirare le tracce incancellate d’una nativa bellezza. Un dolore sincero, come tutto ciò che è nobile e santo, non deforma mai.

[38]

Tosto che la vide, Murena la riconobbe — Rosalia!... — sclamò egli.

Era veramente la moglie di Livio; ma la donna alzò gli occhi, guatò fissa, e rispose all’amico di suo marito con una di quelle laide contorsioni delle labbra che paiono sorriso, e non sono altro che i segni precursori della pazzia.

— Rosalia!... Sono Battista Santafiori... Sono Murena... Vengo in cerca di Livio...

A questo nome la donna si strinse disperata al seno il suo bambino e proruppe in un pianto gemebondo simile all’ululato di una fiera. Essa aveva perduto nella strage il marito e la figlia maggiore, e nel giorno istesso i negri la condannavano coll’altro figliuolo, ancora lattante, alle fiamme del rogo...

Il dolore le dava al cuore, il terrore al cervello; l’uno la faceva piangere, l’altro sghignazzare: connubio terribile da cui nasce la demenza.

Murena comprese tutto. Si fe’ recare dei cavalli e la trasportò seco a Porto Principe; conosciuto da tutti, potè circondare la salvata di tutte le cure. Egli stesso fu medico, infermiere, amico, protettore. Dopo pochi giorni potò trasportarla presso una sua zia vicino al Capo, sulle coste opposte, dove il terrore negro non poteva arrivare.

Quest’esordio sanguinoso della emancipazione d’una gente, per la quale egli aveva tanto operato, l’aveva amareggiato e disgustato. Le voci della rivoluzione francese arrivavano ogni giorno abbellite da’ novellieri, ingrossate dalla distanza e dalle passioni. Lettere private pervenivano [39] a Battista annunziando: «l’Italia già invasa dalle nuove idee di libertà, pronta a levarsi in armi, a dar la mano ai fratelli repubblicani trasalpini, a ricostruire la patria».

— È là il mio posto — pensava Battista — ma questa donna? questo fanciullo?

Rosalia s’era ricuperata; la piaga stavale sempre viva e rodente nel cuore, ma lo spirito erasi interamente liberato. Essa riconosceva il suo liberatore, lo ringraziava e lo amava della più riconoscente amicizia. D’altronde ella era madre e sentiva il dovere di vivere per suo figlio, il quale, dopo la perdita del padre e degli averi, era ridotto alla più nuda miseria.

Ora la demente avea già la forza di dire: — Signor Battista!... il mio Michele — e additava il suo bambino — vi rimunererà un giorno di questo beneficio. Non è vero Michelino che tu pagherai il tuo debito di gratitudine anche per tua madre?...

Il fanciullino rispondeva strillando e la madre lo baciucchiava per acquietarlo. Vestita a bruno, illuminata da uno splendido pallore, ne’ momenti delle sue espansioni materne, quella donna sembrava più bella di prima.

Erano appena scorsi tre mesi, e Battista sentiva di non poter più guardarla colla stessa franchezza di prima.

Ma egli frattanto aveva fatto il suo progetto. Tornò alla sua fattoria nella Virginia; ne vendette parte a Washington, già ritiratosi per la prima volta dalla scena politica nelle terre, e il rimanente ad altri coltivatori; congedò i suoi negri già liberati e li accompagnò con regali e pensioni. Cedette due dei suoi bastimenti; [40] e non ne ritenne che uno, cui ribattezzò col nome di Livio, in memoria del perduto amico. Intascò con tutto questo un milione a cui poteva aggiungerne un’altra metà in denaro, cambiali e buoni sulla banca di Filadelfia.

In tutte queste operazioni era trascorso un anno. La signora Rosalia col figliuolino era sempre rimasta al Capo presso la vecchia zia e sotto la protezione speciale di Toussaint Louverture. Quando Ballista tornò, ritrovolla assai più calma; essa aveva ripresi tutti gli usati uffici di donna; qualche volta sorrideva melanconicamente, tal altra arrossiva come una fanciulla davanti alle occhiate di Battista, e senza sapere il perchè abbassava le pupille.

Egli un giorno la colse sola nella sua stanza, deliberato di rompere il ghiaccio e di aprirle l’animo suo. Le parlò del progetto che aveva fatto di tornare in Europa, dei suoi doveri di cittadino, delle sue idee di rivoluzionario, della sua fede impegnata. Le confidò d’aver tutto venduto, meno il brick che doveva riportare nella patria che aveva lasciata bambina. Le fece considerare che essa era sola, povera, denudata d’ogni cosa, col peso troppo caro della sua creatura, circondata da una popolazione feroce in momenti procellosi.

— Per questo — e a questo punto la voce di Battista cominciò a tremare — io vi consiglio Rosalia a... — e la voce gli si appannò del tutto.

— A che cosa? — fece Rosalia impallidendo alla sua volta e sprofondando i suoi grandi occhi celesti nella faccia di Battista.

[41]

Questi esitò ancora; ma poi si decise e pronunciò chiaro e secco:

— A rimaritarvi.

— Rimaritarmi!... E Livio? — disse Rosalia alzando gli occhi al cielo — e Michele?... — additando il suo pargolo. — Epperò... rimaritarmi... con chi?

— Alle corte, Rosalia... con me!...

L’anima di Rosalia tremò tutta, ma invisibilmente. Se vi fosse una chimica che valesse a decomporre le sensazioni avrebbe trovato in quel tremito molti atomi di gioia. Essa accettò, ma chiese di rispettare la memoria di suo marito ancora per qualche mese, e fu pattuito che il matrimonio seguirebbe in Europa.

Battista con Rosalia, Michelino, due vecchi servitori, che eran piuttosto suoi amici d’America, riprese la via d’Oriente e in capo a due mesi di navigazione rivide da lontano le cime dell’Alpi marittime, la chioma del Mon Boron, l’anfiteatro ridente di Nizza, e più basso, avvolte d’azzurro, le ondulazioni dell’Appennino ligure da cui giovinetto aveva lanciato la lenza e il palamite, o s’era spiccato, audace nuotatore, a snidare da’ loro profondi recessi i gronghi e le murene. Là egli sentì echeggiare nel suo cuore il grido dei compagni di Enea: Italiam! Italiam! e cacciatosi a cavalcioni del suo bompresso ristette lungamente a contemplare, inondato di lagrime, le sacre immagini redivive della patria sua.

Nelle vicinanze di Nizza, in una valle tutta dorata d’aranci e fronzuta di vigne e d’oliveti, s’accasò. Era una delle più vaste e ricche possessioni dei dintorni; vi buttò dentro senza [42] contare, due terzi del denaro raccolto in America dicendo: — che anche quel cielo e quel mare bisognava pagarli.

Nell’inverno del 1793 condusse Rosalia all’altare; egli aveva allora cinquantacinque anni, e sua moglie ventiquattro. Ma l’una ne dimostrava più di trenta, l’altro appena quaranta: il dolore aveva invecchiata la donna; la vita attiva, battagliera e nell’istesso tempo rigida e monacale avevano prolungato sulla fronte dell’uomo le vestigia della giovinezza. Per questo la disparità degli anni adeguavasi, ed essi si amavano.

V. RITORNO IN PATRIA.

Battista non aveva interrotto nè le sue relazioni politiche nè i suoi viaggi. Egli arrivava in Europa nel colmo della rivoluzione francese, in quel momento infernale e sublime che sarà, per tutti i secoli, lo spettro dei re e il rimorso della libertà: il novantatrè. La testa di Luigi rotolava sul palco: Collot e Saint-Juste decretavano il delitto, Carnot la vittoria: di qui Valmy, Jemappes, di là gli annegati di Nantes e gli agghiacciati di Avignone; dovunque la vertigine del sangue, del martirio, della grandezza. La Francia era un’ossessa che fra mostruose convulsioni rivelava il futuro. Innanzi ad essa l’Europa abbrividiva e sperava. I re movevano i loro battaglioni ma facevano le [43] loro preghiere: i popoli aspettavano come gli antichi millenari il giudizio universale. Però la nostra coscienza è ancora incerta su quell’epoca ciclopica e vediamo che non meno dubbiosa è la storia. Chateaubriand condanna, Michelet compiange, Thiers esalta, Blanc giustifica, Capfigue maledice: tutti ammirano.

Fino ad ora il giudizio più profondo e più esatto è quello di Victor Hugo: «Una rivoluzione è una nube che i secoli hanno carica d’elettrico. Viene il momento in cui la nube tuona, la folgore scroscia. Allora chi fa il processo alla folgore, erra; deve farlo ai secoli che hanno fecondato d’elettrico la nube».

Ma se dubitiamo noi che siamo lontani e che, ad ogni modo, cogliamo il frutto senza insanguinarci la mano, quale sarebbe stato l’animo nostro se, come Battista, fossimo vissuti in mezzo alla tragica epopea?...

A lui pareva d’assistere a un sogno di spiriti soprannaturali quali devono essere apparsi alla fantasia di Milton nel sognare la battaglia degli Arcangeli e de’ Demonii.

Egli sentiva di essere chiamato a decidere fra la fede sublime e sacrosanta della libertà, e la legge ancora più alta e divina dell’umanità e dell’amore. Alcune volte considerava il Comitato di salute pubblica come un tribunale di Dio mandato in terra a giudicare le colpe di venti generazioni di re; tal’altra vedeva la folla inzuppare i fazzoletti del sangue dei Girondini e pensava a Cristo che aveva fondato una legge d’amore col proprio martirio, e preconizzava alla Francia la fine di Nemrod e di Encelado. Conosceva taluni convenzionali [44] a Parigi e specialmente Grégoire; egli andò, parlò, perorò, ma comprese che era stoltezza tentare di arrestare quell’uragano nel suo cammino. Egli ripartì abbagliato e atterrito. Allora corse per l’Italia, a Milano, a Firenze, a Napoli, a Roma, ascoltò giudizi diversi, ma nessuno conforme al suo ideale. Liberali che invocavano la repubblica dalle armi straniere; plebi che si preparavano a combattere contro la libertà a favore di regoli che le imbecillivano e le eviravano; chi sognava un’Italia francese, chi un’Italia borbonica, chi un’austriaca, nessuno un’Italia italiana; ed egli fuggì ancora. Le illusioni gli erano cadute a lembi a lembi come dal capo d’una sposa tradita il serto di nozze.

L’invasione del Piemonte, Bonaparte, Massena; Genova, Marengo, i Giacobini, i Barbetti, la Marsigliese, la Carmagnola, passarono sopra di lui come una pioggia sopra un terreno granitico.

Conobbe Birago, Pino, i pochissimi altri che aspiravano a una libertà umana e a una Italia non francese e s’iscrisse per mezzo loro alla società dei raggi, cui aiutò largamente del suo denaro. Ma incredulo degli eventi e degli uomini, non fu più l’audace e attivo cospiratore che in sul finire dell’altro secolo aveva aiutata la rivolta degli Inglesi e dei Negri di S. Domingo. Egli adorava e aspettava sempre una libertà, ma sentiva che la sua ora non era per anco suonata.

Per questo si ritrasse nella sua villa di Nizza, in seno alla sua famiglia che l’aspettava, proponendosi come voto alla sopravvegnente [45] vecchiaia la beneficenza indistinta e illimitata. La sua casa mutò in ospizio. Molte persone inutili, ch’egli non conosceva nemmeno, passavano per servitori, ma in realtà non erano che beneficati oziosi e nulla più. Nessun operaio veniva a chiedergli lavoro senza che Battista dicesse:

— Lavoro non ce n’è per ora; ma restate lo stesso.

Non forastiero, non vagabondo, non faccia bieca o sospettosa picchiava alla sua porta che non la trovasse subito spalancata. In cucina c’era imbandita una gran mensa e tutti vi trovavano posto. In quel rivolgimento anche le fortune se n’erano risentite; molte s’erano inabissate, molte erano salite alla cima. La voce delle prodigali beneficenze di Battista si sparse; benchè molti le berteggiassero o le compatissero, parecchi trovarono spediente di metterle a profitto. Quindi grandi domande di denaro, numerosi prestiti, pochissime garanzie. Ma i debitori diventano per solito inimici, e Battista più s’avanzava nella via stretta e così poco battuta della beneficenza, più sentiva incalzarlo la frusta della maldicenza e il sibilo della calunnia.

L’impero non passò soltanto inosservato, ma ridestò per un istante l’energica fibra di Battista, ed egli invocò ancora un lampo di vita italiana. Invano. L’ode di Ugo Foscolo a Buonaparte liberatore e la sublime orazione che l’accompagna, gli fecero credere d’aver trovato un fratello di speranza; la resistenza della Spagna l’esaltò e inviò a Palafox 20,000 franchi del suo per aiutar la riscossa, ma in breve [46] vide disperdersi nel nulla la catilinaria del Foscolo; i frati usufruttare il sangue di Osterliza e Saragozza, e Napoleone esser chiamato dal più versatile dei poeti viventi italiani: rivale di Giove[4]. In quest’epoca di onnipotenza soldatesca, egli ed i suoi ebbero a pazientare più volte le soperchierie, i soprusi, le devastazioni, le insolenze degli eserciti conquistatori, e non trovò gl’Italiani da meno dei Francesi nel disprezzo di quegli uomini in giubba che veniva loro insegnato dall’imperiale maestro. Un sentimento di ripugnanza insuperabile cominciò a farsi strada nel suo cuore per quella aristocrazia gallonata della sciabola che subentra sotto nuove forme all’abbattuto feudalismo. Sebbene egli non avesse mai tralasciato di offerire il suo letto a un ferito e la sua casa a un fuggiasco; sebbene egli pure si sentisse qualche volta stranamente commosso all’epico poema di quei giganteschi figli della strage e della vittoria, i quali andavano a morire sui ghiacci della Moscowa o nelle gole della Catalogna, pur beati d’ottenere un cenno o un sorriso del Cesare imperturbabile; pure quando pensava che tutta quella gente allineata, piumata, dorata, coronata dall’aureola di cento battaglie, non era che la sbirraglia d’un torvo dispotismo; che sulle due fronti di quel Giano così splendido che nomavasi il grande esercito stava il suggello della gloria in compagnia del marchio della schiavitù; quando paragonava i loro cannoni, i loro moschetti, i loro cavalli, i loro treni risuonanti [47] e pomposi, coi ciottoli di Balilla e di Pittamuli, coi modesti soldati di Washington, coi laceri volontari di Mina, colla credente legione di Körner; quando richiamava tutto questo dinanzi al tribunale della sua coscienza, oh allora egli disprezzava quella pompa, malediceva quella gloria! e se per caso i suoi figli balzavano alla finestra per veder sfilare coll’avidità dei fanciulli i luminosi corazzieri di Bessières, o i rapidi volteggiatori di Junot, egli interrompeva la loro ammirazione e il loro entusiasmo con la solita frase beffarda: «Quella che passa è la gloria in livrea».

In sul finire del 1805 la famiglia di Battista Santafiori, oltrechè di Rosalia e di Michele figliuolo di Livio, si componeva di Giorgio nato nel 1800, e così nominato in omaggio a Washington, e di Livia, caro e pio ricordo alla madre del primo marito, al padre dell’amico arso dai negri. Otto anni appresso vi si aggiunse Balilla, altro nome che si collegava alle rimembranze storiche del compagno di Pittamuli.

Verso l’epoca suaccennata i negozi del Santafiori cominciavano a deperire davvero. Scarsi i ricolti, gravissime le gabelle, incessanti e laute le limosine, troppo facile il credito; tuttociò aveva costretto Battista a riparare alle molte obbligazioni assunte sottraendo dalla sua possessione i terreni più feraci e vendendoli. Egli avrebbe potuto intascare i denari prestati, ma parte perchè non si fondavano su documenti legali in regola, parte perchè a lui ripugnava correre su pei tribunali e perseguitare gente che veniva colle lagrime agli [48] occhi a dirgli: «non possiamo pagare», egli non si curò mai di questo per ripristinare la menomata fortuna.

Pensò invece di tornare al mare di nuovo, a cui lo spingeva d’altronde l’amore dell’arte e il disgusto degli avvenimenti.

La moglie tentò dissuaderlo: ma egli la acquetò colla ragione del benessere de’ figliuoli; e fatto costruire un brigantino, di suo genio, di 200 tonnellate, s’apprestò a partire.

VI. ABORTO MORALE.

Michele, il figlio di Livio, aveva allora circa tredici anni. Battista, che era incapace di parzialità, non tollerava alcuna differenza fra lui e i suoi figliuoli e lo aveva caro del pari, sebbene in cuor suo sentisse crescere col tempo non voluta e indomabile una certa freddezza. E questa freddezza non derivava già dall’essere Michele suo figliastro, perocchè la memoria del suo povero amico e l’affetto profondo per Rosalia glielo rendevano sacro, ma da certe inclinazioni o istinti, che aveva veduto svilupparsi nel fanciullo, cui indarno sforzavasi combattere, e che pure si piantavano in mezzo fra figliuolo e padrino come una muraglia che vietava loro di ricongiungersi del tutto, o come un corpo refrattario frapposto a due elettricità contrarie che le paralizzava.

Michele era un bel ragazzo; brunetto sì, ma [49] regolare, e foggiate con grazia le linee del volto; i capelli neri, fini e ricciuti, le labbra sottili, il naso piccolo e ben disegnato: gli occhi soltanto erano un po’ rotondi e affossati, di quel color dubbio e cangiante che volgarmente si chiama castano, ma che non si può riscontrare che nell’occhio di certi animali sinistri, e di cui non la penna, ma la tavolozza soltanto può riprodurre l’immagine. Giovinotto ancora spiegava ben proporzionate, svelte ed ampie le forme del corpo, che in ragione dell’età potevano essere dette, senza iperbole, gigantesche.

Battista, osservandolo talvolta, esclamava dentro di sè: «che magnifico marinaio!... se non gli mancasse questo....» e si picchiava il petto dalla parte del cuore.

Non c’era allora che il padrino che la pensasse così. I famigliari, i conoscenti, la madre stessa, tutti quelli che lo ammiravano atletico, ritto, cinghiato, col cappellino alla brava, col passo cadenzato e sonoro, fra il ballerino e il militare, erano disposti a profetare in lui un altro Murat o un altro Ney, che erano i nomi e i tipi del tempo.

Tanto più ringagliardivasi questa credenza quando pensavasi che esso aveva nel padre una scuola vivente di generosità e di prodezza, e quando lo si vedeva, pargoletto, consumare le mezze giornate a fabbricar cappelli e pennacchi da generale, a trascinare sciaboloni di legno, a cavalcare tutte le scope della casa, a comandare assalti e parate a uno squadroncino di docili monelli, di cui egli voleva essere inesorabilmente il capitano o nulla.

[50]

Battista qualche volta gli ammainava una lenza, o gli regalava una barchetta di sughero alberata e velata, o lo invitava a venire a pescare con lui. Inutile: o il ragazzo non andava o andava di mala voglia. Tentò di addestrarlo al nuoto; peggio. Michele si impennava, stralunava gli occhi, e se il padre persisteva, l’atleta sveniva di paura.

La verità era che Michele idoleggiava il fracasso; che aveva genio per tutto ciò che era tuonante e sfarzoso, cominciando dalla propria persona, che malgrado i consigli e i rifiuti del padre, trovava sempre modo colla condiscendenza materna di abbellire di vesti eleganti, e potremo dire, per il luogo, sfoggiate.

Ma appena i suoi gusti spettacolosi dovessero costargli qualche cosa, un lavoro serio, un pericolo reale, oh allora il suo cuore si sgonfiava, le suo pose eroiche perdevano l’usato appiombo, e la sua cervice, come un’ostrica tocca sulla testa, si raggricchiava nel guscio.

È chiaro, è conseguenza di questo, che Michele non lottasse che quando la vittoria era sicura, non amasse altri emuli che i minori e fosse prepotente coi più deboli. È chiaro che egli fosse rodomonte e squarciagiramo, e nell’istesso tempo inetto e poltrone; è chiaro che egli non amasse il mare, forse per un’avversione naturale all’acqua, ma ancora per le fatiche e i pericoli che portava seco coll’onta per giunta — onta inescusabile per lui — d’essere sorpreso colla camicia lacera, coi piedi nudi, colla faccia tinta, colle mani sudicie o callose, quando il suo ideale era di sfoggiare [51] la più bella giubba ricamata, fosse pure stata una livrea, o di pavoneggiarsi dentro un dorato corsettino da ussero, lo avesse pur dovuto pagare colla servitù di tutta la vita. Egli era infatti della razza prolifica e non bene mascherata di coloro che amano portare un collare dorato per farne portare ad altri uno di ferro; razza ibrida che sta fra i padroni e gli schiavi, senza la potenza degli uni e la speranza degli altri; razza che annidò nel Medio Evo fra il castello del signorotto e il casolare del servo col nome di vassalli; che passeggia nelle anticamere delle corti fra i re e le plebi col nome di cortigiani; che nella società moderna nidifica nei corridoi e nelle casematte del potere e si nomina insieme burocrazia e militarismo.

Più Michele procedeva negli anni e più l’istinto del parere sviluppavasi d’accordo e gemello all’istinto del dolce far nulla. In lui si accoppiavano già le forme d’un tamburo maggiore al cuoricino d’un capo d’ufficio, o se più piace un paragone classico, le membra d’Aiace Telamonio all’anima di Tersite. Questo carattere parve ancora più spiccato quando Battista risoltosi a vedere cosa avesse imparato dalle lezioni quotidiane del maestro di casa — una specie d’Ajo nell’imbarazzo che Battista aveva ricoverato — s’accorse che la testa del suo figlioccio poteva benissimo servire alle funzioni della tabula rasa di Locke.

— Ah!... vivaddio!... anche ignorante.... è troppo — borbottava Battista — che quella povera donna di sua madre non lo sappia! se ne angoscerebbe a morirne. Bisogna risolversi [52] a portarlo lontano da casa e trovargli una buona scuola e un maestro energico.... se no abortisce del tutto.

Il padrino aveva ragione. Michele, nato da quell’angelica donna di Rosalia e da quell’onesto uomo di Livio, poteva dirsi: un aborto morale.

Ma quanto a scuola, o collegi imperiali o gesuitici, Battista non voleva saperne degli uni e molto meno degli altri. Credette meglio collocarlo a Genova nella scuola privata d’un antico suo beneficato, ex-luogotenente di corvetta, che aveva perduto una gamba nel combattimento che la fregata sarda Alceste sostenne nel novantatre contro la francese Boudeuse nelle acque di Sardegna. Ma il re proscritto non avevagli potuto pagare la pensione della sua gamba, e il conquistatore non la volle concedere perchè egli non la richiese.

D’onde alcuni anni d’onesta povertà che Battista estimò e sollevò, ricompensato dalla più sincera gratitudine. Era il luogotenente, per verità, uomo di lettere mediocre, ma dotto assai nelle matematiche, di carattere fermo e severo, e reputato abilissimo a disciplinare una scolaresca, lui che aveva tenuto a bacchetta le ciurme del suo bastimento.

Battista gli condusse il figlioccio e glielo raccomandò così:

— Gl’insegnerete l’italiano, il francese e l’inglese: un po’ di storia, ma scelta, e le matematiche tutte. Confortategli la mente di idee virili e il cuore di sentimenti generosi. Ricordategli spesso, come un capitolo del catechismo del suo secondo padre, queste tre massime: [53] «la vita è un campo che bisogna inaffiare col proprio sudore; non bassezza perchè nessuno è servo, non alterigia perchè nessuno è padrone; l’umanità è la famiglia comune, e se non la è dobbiamo fare che la sia». Se riuscirete a fare di lui un onesto e abile negoziante ve ne sarò grato per tutta la vita. Io intanto aggiungo alla pensione comune un regalo di cinquecento franchi, e se vedrò progressi in capo a un anno ne avrete altri mille. Combattete tutte le vanità, dileguate tutti i fumi e confondete tutte le servili smancerie. Ridatemi un uomo — voi mi capite. — Addio.

Un po’ rassicurato sul conto del maestro e del figlioccio, abbracciata la famiglia, Battista s’imbarcò sul suo nuovo brick e drizzò la prua verso levante.

A quell’epoca Genova, al pari di tutte le città italiane, subiva l’abbaglio della meteora napoleonica, e nella festa instancabile e storditrice che i conquistatori imponevano ai conquistati essa offeriva volentieri per tappeto il suo manto di dogaressa e ballava nella ridda comune. Napoleone gongolava se poteva scimiottare i cerimoniali del re sole; i marescialli gongolavano se potevano scimiottare Napoleone, e i popoli i marescialli.

Quando Michele capitò nella metropoli della Liguria provò come le vertigini d’una fantasmagoria.

Una danza, una musica continua passava sotto i suoi occhi; egli che pure tante grandezze aveva sognate, non avrebbe mai osato credere vi potesse essere al mondo tanto oro, tante gemme, dell’armi sì splendide, delle vesti [54] sì ricche, dei cavalli così superbi, dei cocchi così lussureggianti, degli uomini così applauditi, delle donne così belle, così seducenti, così corteggiate.

Il barbaro, che uscito dalla nebbia delle sue foreste, affacciossi per la prima volta alla vetta dell’alpi vietate e vide mollemente adagiata fra le sue marine, illuminata dallo eterno sorriso del suo cielo, coronata di olivi e di cedri, cosparsa di pampini e di viole, la terra impromessa delle nazioni, non deve aver provato nè desiderio, nè ansia, nè rapimento maggiore di quello che Michele provò innanzi alle larve lusinghiere e tentatrici che sfilavano a lui davanti nella scena splendida e variopinta di Genova la bella.

L’avido giovinetto avrebbe dato come Faust l’anima a Mefistofele per un’ora sola di quel lauto banchetto.

VII. MERCATO.

Il maestro studiò, comprese, invigilò, contenne col rigore e la disciplina l’alunno quattordicenne; ma non poteva più imbrigliare il giovinotto di diciott’anni. Egli aveva già scritto più lettere a Battista, sempre in mare, avvertendolo degli scarsi profitti della mente e degli scarsissimi del cuore; e pregandolo a ripigliarsi il figlioccio. Ma Battista, sebbene angustiato da tristi presentimenti, temette peggio [55] l’indulgenza dalla madre e lo pregò di tenerlo in custodia ancora per alquanti mesi, chè egli non avrebbe tardato a ritornare. Ma era già tardi.

Il momento critico e supremo della vita di un giovane è quello dell’amore. La donna che egli incontrerà per la prima deciderà di tutta la sua vita e sarà, come dice Francesca, un punto solo.

Spirito del cielo o dell’abisso, Fata o strega, Eva dominerà. Reciderà a Sansone la chioma e addormenterà Rinaldo nelle molli braccia d’Armida. Condannerà Orlando alla furibonda odissea, spingerà Werther al suicidio, desterà Dante alle divine visioni, spingerà Macbeth sul trono insanguinato, consiglierà a Gesù la santa menzogna del miracolo di Lazzaro. I patriarchi la chiameranno «dardo acuto del demonio e sentinella avanzata dell’inferno» e i santi sacrificheranno ad esso nelle agapi fraterne e gli angeli scenderanno a cercarla sulla terra. Maometto la collocherà alle porte del paradiso; Cherubino, porterà un raggio di cielo nei cuori dannati; Satana, avvolgerà di caligine le anime più candide. Non vi è corruzione incurabile come non vi è inespugnabile virtù innanzi ad essa; tutto piega, tutto muta innanzi all’amore di cui la donna fu posta sacerdotessa. L’amore — dice un profondo proverbio — è più forte della morte; «amore alma è del mondo, amore e mente» cantò Petrarca, e meglio ancora Dante rivelò le avverse potenze dell’amore alto e divino, basso e sensuale, e lo fece semente d’ogni virtude come complice d’ogni male.

[56]

Per questo il giovine diciottenne, che in Genova lanciava la prima occhiata di desiderio sopra una donna, non sapeva in quale terribile mistero ei fosse iniziato; non sapeva di giuocare con quella donna tutto il suo destino. Giulietta poteva santificarlo, Aspasia depravarlo. Egli non ebbe fortuna e trovò Aspasia.

Fu allora un delirio; e non appena il cinto della Venere terrestre gli cadde sotto gli occhi con tutti i suoi procaci fulgori, si pose disperatamente a testa bassa a correre la giostra.

Michele era innamorato — e desideriamo che il lettore distingua. — Si ama col cuore e s’innamora coi sensi.

Un avanzo delle centomila sirene che nell’epoche corrotte moltiplicano e sovraneggiano, vide, non vista, le salde spalle e le erculee forme di Michele e lo agognò e lo scelse come Caterina II sceglieva Potemkin o Pasifae il toro. Bellissima, da giovine erasi impalmata, per emanciparsi, con un vecchio colonnello francese che aveva lasciato un braccio ad Austerlitz, e che ora, fatto quartier mastro generale, dirigeva in Genova l’amministrazione, o come suol dirsi oggi, le intendenze militari.

Finchè fu in fiore gittò il suo pomo agli adoratori e, come Atalanta, ne sfiatò di molti; ora che tramontava verso la quarantina scambiava le parti e correva essa stessa il palio degli ultimi amori. Essa, scaltrita, seppe farsi vedere, cercare, trovare, corteggiare; adoperò tutte le arti, le finezze, i sospiri, i deliqui, [57] per essere creduta casta, fedele, sedotta, innamorata. Michele allungava la mano, incerto e peritante, come sopra il frutto vietato, e quando credette d’aver trionfato, accettò la vittoria a occhi chiusi, senza voler indagare se quella virtù fosse artefatta, o quella beltà ritinta, felice di trovarsi accanto a una donna seducente ancora, vestita come una regina, profumata come un’odalisca, sopra divani di damasco, in un gabinetto azzurro e silenzioso, dove i passi e le parole smorivano sopra tappeti di Persia e dietro portiere di velluto, dove l’arte degli specchi moltiplicava la luce e l’arte dei cortinaggi la scemava a grado dei due numi abitatori del misterioso recesso.

Una sera la Semiramide squadrava pensierosa il suo giovane amico — a cui risparmiamo per pudore un titolo più meritato — e tutto a un tratto interruppe il silenzio così:

— E perchè non ti fai soldato?.... Che bel dragone saresti.... come ti starebbero bene l’elmo e la criniera!....

— È il mio sogno, Aurora — era questo il nome di quel tramonto di donna — ma la mia famiglia non vuole.

— E perchè?...

— Perchè mio padre odia i militari e mia madre non ha altra volontà che la sua.

— Imbecilli!...

Michele era la prima volta che sentiva a parlare così de’ suoi parenti e arrossì.

— E sono ricchi i tuoi parenti per chiuderti la più ricca e splendida carriera che si presenti oggi ai giovani come te?...

— Ricchi lo siamo stati.... ma ora.... — e [58] Michele abbassò la testa, vergognoso di dover confessare la sua inferiorità.

— E allora?...

— Allora mercantuzzo, mia cara.... Ecco l’ideale del mio padrino. È già molto se ho potuto liberarmi dalle sue preghiere; che altrimenti a quest’ora sarei a bordo di un bastimento a tirare scotte e a pompare acqua.

— Ah! ah! — fece Aurora ridendo. — Come saresti stato bene vestito da mozzo!... e il mal di mare?... Ah!... povero Michele.

— Però spiegatemi una cosa, Aurora.

— Cosa debbo spiegare?

— Io amo la vita militare e sento che son nato per quella.... ma non pensate che se io seguissi la mia inclinazione dovrei andar lontano da voi?... molto lontano.... giacchè ora si sa d’onde si parte, ma non si sa dove si arriverà!.... Io credevo che mi amaste, Aurora, e che avreste preferito a tutta la gloria dei nostri guerrieri un’ora d’amore trascorsa con me.

Michele parlava allora sinceramente; egli era nelle prime febbri della passione, e non vedeva altro.

Aurora sentì a quel complimento ringiovanire i suoi quaranta inverni e assicurò il suo amico con un sorriso, una stretta di mano e un sospiro.

— Ma capisco.... così non vi piaccio più — continuò Michele. — Vi sembro troppo vulgare.... troppo prosaico.... e per questo mi mandate via. Non rispondete, Aurora?...

— Penso.

— A che cosa?

[59]

— A te, e a me!... a un progetto che mi mulina nella testa, magnifico e possibile.

— Per avermi vicino?...

— Per averti vicino ancora più d’adesso.... sempre, sempre!

— Come?

— E per vederti vestito sempre....

— Da dragone?

— O da granatiere; infine da eroe....

— Oh, parlate, Aurora; parlate subito.

— Mio marito è quartier mastro generale, egli abbisogna, o faremo in modo che abbisogni d’un segretario.... d’un aiutante.... che so io, infine dovresti capirmi.

— E proporreste me?... esclamò subito con gioia Michele.

— E chi dunque?!... mio marito è invalido. Come quartier mastro non abbandonerà la città. Il suo ufficio lo porta a restare nei presidii. Tu come suo segretario o aiutante lo seguiti dappertutto, pranzi alla sua tavola e forse chissà.... dormi nella sua casa e gli stai sempre vicino.

— Cioè ti sto sempre vicino.

— Si sottintende.... Ma il buono viene ora.... Un aiutante del quartier mastro appartiene a tutti i corpi e a nessuno: e tu puoi scegliere quella uniforme che credi.

— O quella che piace più alla mia dama.

— La tua dama avrà buon gusto, stanne sicuro. Essa così renderà tre segnalati servigi: uno a suo marito procurandogli il più bell’aiutante dell’esercito, uno al proprio amico che guadagna in pochi mesi le spalline d’ufficiale, uno a sè stessa che guadagna... te lo dirò in un orecchio.

[60]

Il lettore avrà indovinato; noi gli faremo grazia di non leggere più innanzi in questo libro galeotto.

Fu dunque convenuto. Aurora all’indomani doveva parlarne al marito generale; il vecchio che non sapeva resistere ai sorrisi della sirena, annuì, e la cosa ebbe capo. La sola variazione introdotta fu la divisa di corazziere in luogo di quella di dragone; la corazza attagliavasi meglio al largo petto di Michele, e nei saloni illuminati, dov’era destinato a comparire, splendeva come un sole della luce emanata da tutti i doppieri. Michele fu presentato sotto le mutate spoglie nelle sale del quartier mastro generale, e dopo un mese ottenne, mercè la intercessione della sua protettrice, un quartierino in casa sua, il quale, per ragioni d’ufficio, doveva avere facili comunicazioni cogli appartamenti del generale.

Il padrino era assente; il maestro non seppe la cosa che quando fu consumata. Michele poi con poche righe avvertiva la madre della sua metamorfosi.

Quelle righe erano fattura di Aurora e concepite così:

«Carissima madre,

«Aiutato dalla possente protezione d’un generale, entro nella milizia. Era la mia sola vocazione ed io spero un giorno di ritornare fra le vostre braccia decorato della stella dei prodi. Oggi sono già sergente dei corazzieri e segretario del generale mio protettore; fra breve sarò sottotenente. Non ve l’ho annunciato prima per risparmiarvi una [61] grata sorpresa, ma io spero e attendo la vostra benedizione e quella di mio padrino, e vi abbraccio intanto con tutto l’affetto più figliale e rispettoso.

«Genova, 16 gennaio 1811.

«Vostro ubb.mo figlio
Michele

«PS. Ebbi, per le prime spese, a fare qualche debituccio. Vorreste essere tanto buona da mandarmi un po’ di denaro? — Date un bacio di cuore a Giorgio e a Livia».

NB. I debiti erano una bugia giacchè la generalessa aveva pagate tutte le spese dell’installamento.... sulla cassa del generale.

Rosalia non aveva le idee nè la ripugnanza del marito; però a leggere il foglio di Michele fu, è vero, sorpresa e conturbata e dal timore di non vederlo mai più e dal sospetto che Battista disapprovasse la scelta del figliuol suo; non pensò pure un istante a condannarlo, e molto meno sospettò il turpe secreto di quell’avvenimento.

Però all’indomani, accompagnata da Giorgio, fanciulletto di undici anni, corse a Genova, cercò Michele, lo rimproverò, con quel tuono carezzevole che le madri sanno dare perfino alle rampogne, d’aver mancato di confidenza verso lei e suo padre; ma finì coll’abbracciarlo, col baciarlo, coll’inondarlo di lagrime, col lasciargli denari, vesti e doni, e — perchè lo nasconderemo? — coll’inorgoglire persino di aver trovato nel suo figliuolo un corazziere così magnifico.

[62]

Michele, dal canto suo, imbeccato sempre da Aurora, mentì come un diplomatico, e Rosalia ripartì senza aver veduto nè il generale, nè sua moglie, e sempre ignara delle prodezze che avevano valso al figliuolo l’onore di entrare nel grande esercito col grado e la divisa che migliaia di prodi conquistarono col proprio sangue sopra tutti i campi di battaglia di Europa.

VIII. CON E SENZA CORAZZA.

Intanto che Michele illustrava i suoi galloni nei gabinetti della sua Messalina, i giornali annunziavano sotto la data di Oriente che «il brigantino Italico di 200 tonnellate, capitano Battista Santafiori, era naufragato sulle coste del Mar Nero presso Trebisonda; che il bastimento e il carico erano perduti, e che solo sette uomini dell’equipaggio e due passeggeri si poterono salvare mercè l’audacia e fermezza straordinaria del capitano Santafiori».

Questa notizia, conosciuta colla celerità della sventura, fu per Rosalia un crepacuore, per tutta la famiglia una desolazione. Dopo alquanti giorni giunsero lettere da Trebisonda; esse confermavano che Battista era salvo, ma che tutta la sua fortuna era inghiottita. Una settimana dopo arrivava Battista in persona.

Le sue prime parole, dopo gli abbracci, furono: «E il corazziere?» La moglie avevagli [63] scritto naturalmente il nuovo stato del figlioccio.

Il dì appresso egli corse a Genova a cercarlo; ne era partito da pochi giorni col suo quartier mastro traslocato a Milano: rifece adunque la strada e andò a Milano.

Lo trovò in un bigliardo in compagnia di tutti quegli eroi delle bische che non conoscono altra pugna che il cozzo delle biglie, altr’arme che la stecca, altra trepidazione che le fortune dei tavolieri verdi, e che pure sono infaticabili raccontatori di battaglie (a cui non hanno assistito), abilissimi a intromettersi nella società dei veri prodi ed a raccogliere il polverìo brillante della gloria altrui; velocipedi alle promozioni, centimani alle decorazioni, allumacatura schifosa delle retroguardie, mascherata impudente dell’eroismo e della forza.

— È qui che doveva trovarlo!... — pensò con amarezza Battista; e avanzatosi colla sua faccia serena, col suo occhio calmo, colla sua persona ritta e maestosa, chiamò:

— Michele!...

Michele, che in quel momento faceva una carambolata, si volse a quella voce, come punto da una vespa, lo riconobbe, mutò colore, ma impercettibilmente, si riebbe e senza muoversi balbettò:

— Mio padrino!....

— Sì.... tuo padrino-... anzi tuo padre o Michele; perchè io non voglio ancora spogliarmi di questo titolo, nè tu, per quanto farai, lo potrai.... Ora avrei a dirti alcune parole, Michele. Vuoi venire con me per pochi minuti?....

Michele esitò e guardò i suoi compagni.

[64]

— Ma il nostro camerata Gordiglia è impegnato in una partita seria con noi e non può lasciarci — saltò su un sergente dei corazzieri, il quale, istruito già da Michele delle avventure e delle idee repubblicane del padrino, coglieva un’occasione per rompere una lancia a favore dell’impero.

— Non ho alcuna difficoltà ad aspettarla — rispose dolcemente Battista — continua la partita, Michele.

— Ma sarà un affare molto lungo! — rispose il sergente.

— Molto?!... E quanto?... — replicò Battista volgendosi a Michele, perchè non voleva impegnare discorsi con quella gente.

— Tre o quattro ore.... e forse più.... — fece ridendo uno dei giuocatori.

— Voi scherzate, signori.

— Non scherziamo perdio!... E il nostro camerata Michele ci farà il piacere di dirvi, che se vi piace d’aspettare potete andare altrove, giacchè questa sala è riservata agli ufficiali dell’imperatore!....

Un vecchio granatiere della Guardia coperto di ferite non avrebbe calcato più forte queste parole.

— Ma io, signori, sono il padre, e....

Uno scoppio di risa fu gettato in faccia a Michele. E il sergente che aveva già parlato, sghignazzando più forte di tutti: Connu!... connu!... sappiamo la sua storia e vi passiamo la bugia di chiamarvi suo padre.... Del resto scusate se non abbiamo portata la mano all’elmo, signor sanculotto d’America!... Diamine!... Quando si è filantropi e non si riconosce [65] Napoleone, si ha ben diritto di farsi presentare le armi.... Ah! ah!... Nullameno, se volete un consiglio da corazziere d’onore, pigliatevi questo: del berretto frigio fatene una cuffia da notte. Sarà tanto di sparagnato.

Battista durò a questa spruzzata di villanie senza far motto: poi voltosi al figlioccio freddamente gli disse:

— Senti, Michele?... Insultano tuo padre.... e tocca a te a difenderlo.... Hai desiderato un’arma al fianco, è venuta l’occasione di adoperarla.

Michele era pallido come la cera; girava gli occhi dai suoi compagni al suo padrino, tastava macchinalmente l’elsa della sciabola e restava taciturno e goffo come la statua della stupidità.

Allora uno di quei farabutti da caserma, avanzatosi verso il vecchio, sempre fermo al suo posto:

— Pare che vogliate sfidarci, signor Barbetta.

— Non lo voglio — rispose Battista colla sua calma; — se lo volessi rammenterei che a otto anni ho fatto voltare le spalle ai granatieri tedeschi che erano di un palmo più alti di voi. Ma non spetta a me sfidarvi, spetta a questo — e additava Michele. — La manata di fango che mi gettate passa sopra i miei capelli bianchi e s’imprime tutta sopra la fronte di costui come un suggello d’infamia. Io gli dico però: chi lascia vilipendere un vecchio, è un vile: chi lascia vilipendere suo padre, è un miserabile.

— Senti, Michele, egli c’insulta.

[66]

— Alla porta — gridò uno.

— Dalla finestra — urlò un altro.

— A te Michele; se no a noi — fece un terzo, accennando una mossa verso Battista.

— In verità mi fate la figura di un consiglio di lepri che spingano un coniglio ad attaccare un leone. Perchè, chi mai non sarebbe un leone in faccia a voi altri?... Oh, vi conosco!... e so che le vostre corazze non vi servono ad altro che a nascondere i tremiti del cuore.... Voi prendete degli atteggiamenti da eroi, ma i vostri campi di battaglia non varcano le sponde di questi bigliardi.... Voi siete le comparse della tragedia e il vostro posto è nell’ombra. Lo vedo bene che gli applausi degli eroi che muoiono in mezzo alla scena vi solleticano; ma tutti ormai s’accorgono che la vostra barba è finta e la vostra spada è di legno... Io non amo le glorie cruente dei vostri compagni, che fabbricano colla corona del loro imperatore la catena dei popoli, ma le ammiro. Si son fatti d’un uomo un Dio e muoiono per esso; la morte sublime nobilita la loro vita.... ma voi.... siate certi.... morrete di male vergognoso in un ospedale. Io sono vecchio di settant’anni, ma avrei vergogna di trascinare codesta scimitarra su per le scale delle vostre drude, mentre altri vestiti delle vostre assise le fanno scintillare sul campo del nemico. Basta per voi.... ora a costui...; egli è degno del vostro consorzio, e se non ne sapete la storia io ve la dirò. Egli porta l’aquilotto sulla testa, ma guardatelo bene, e sotto le penne troverete il gufo.... Sappiatelo: egli è nato da una santa donna e da un padre virtuoso, ed io volli che [67] dividesse co’ miei figli la mia eredità; e per questo sono tornato a sfidar le tempeste, a patire, già vecchio, tutte le fatiche dei giovani per ingrossare il suo retaggio. Ma a lui che importava tutto questo?... Egli voleva avere un elmo dorato, una coda da cavallo, due quintali d’acciaio sullo stomaco e degli sproni da Don Chisciotte agli stivali.... Io questo non poteva dargli; ed egli s’è venduto.... a chi?.... Lo saprete ora. A una cortigiana! Egli è guardia portone d’una Dubarry qualunque. Ha messo all’incanto le sue spalle e le sue spalline.... e s’è fatto guardiano d’odalische.... Questi è il gladiatore a cui voi dite di cacciarmi dalla finestra. Ma guardatelo come è bianco.... si direbbe che non ha più corazza. Però io giuoco che se muovo un passo verso di lui, egli rincula; che se io ve lo getto sul vostro campo di battaglia, voi mi lasciate fare.

Sì dicendo il vecchio afferrò alla cintura Michele e, levatolo con ambe le mani, lo scaraventò con terribile lancio sul bigliardo, dove restò stupido ed inerte come cosa morta.

Fatto ciò il vecchio aprì lentamente la porta, diede un’occhiata di supremo disprezzo su quei giovinastri immobili, storditi, increduli, e abbandonò la bisca.

Giunto a casa, Battista tacque l’avventura a Rosalia, involse in un plico duemila franchi e li diresse a Michele con queste parole:

«Finchè io e i miei figli potremo lavorare, vi manderemo ogni anno una consimile somma».

Intanto però, due carichi di cotone lavorato, sequestrato nei porti inglesi a cagione del blocco continentale, e più tardi il naufragio [68] del suo brick avevano divorato a Battista più di 400,000 franchi. La rovina di Santafiori era inevitabile; conveniva vendere tutto, fin l’ultimo palmo di vigneto nella villa di Nizza, far onore alla propria firma, e pensare altrimenti a guadagnare la vita.

Così fu fatto. Della vendita, tutto pagato, restarono ancora circa 30,000 franchi coi quali pensò a trovarsi un’affittanza in qualche zona ferace ed a buon mercato.

IX. SPETTACOLO AL VILLAGGIO.

Siamo nel piccolo villaggio di X... Una sfilata di dugento case sulla riva destra del Po nei felicissimi Stati di S. M. Vittorio Emanuele I.º re di Sardegna.

Il fiume il quale, a dir del Tasso, pare

Che guerra apporti e non tributo al mare,

è la fortuna e la rovina insieme dei suoi ripuari. E nessuno infatti che venisse da lontano ignaro delle sorti della contrada, avrebbe potuto immaginare che il verde sempre vivo di quelle praterie che stancano l’occhio, l’incantevole infrondatura di quei vigneti, l’onda d’oro di quei campi di spighe, e la maestosa e odorante distesa di quei boschi di quercie e di pioppi che avvolgono diremmo quasi in un amichevole amplesso il villaggio; tanta ubertosità e tanta ricchezza avessero per nemiche [69] le stesse acque del fiume paterno che le aveva procreate.

Eppure più d’una volta il villaggio d’X... nel bel mezzo d’un’annata promettitrice era stato schiantato e portato via, case e colti, alberi ed armenti, dal furore improvviso del Po, rimasta appena ai superstiti abitatori, riparati sulle alture, la speranza d’una nuova messe riparatrice della perduta.

In sullo scorcio del 1815 a mezzo del novembre, quando i raggi del sole autunnale contrastano a mala pena il passo ai primi soffii gelati che brezzeggiano dalle Alpi, e le mattinate sorgono brinate, frizzanti, ma lucide e calme, tutta la popolazione disponibile (in questa categoria comprendiamo, tutti i fannulloni e gl’impotenti, il sindaco, il parroco, il carabiniere, il segretario della comunità, lo speziale, il pizzicagnolo, il droghiere, gli storpi, i gobbi, i cronici, la maestra, la comare, tutta la filatessa delle zitellone, delle beghine e delle trecche, infine la universa monelleria fanciullesca, e se alcuno ne manca suppliscavi il lettore), tutta la popolazione disponibile, dicevamo, nel villaggio di X... era per la strada principale, che è come la spina dorsale del paese, ai balconi e sulle porte; i più distinti o favoriti sulla bottega dello speziale il signor Romeo, del pizzicagnolo il signor Giosafatte, o del barbiere Gigi Squarcia, o sotto l’atrio della chiesa, o sul terrazzino del palazzo comunale, infine dappertutto dove si potesse vedere ed essere visti a contemplare con più comodo e decoro uno spettacolo qualsiasi.

[70]

A quel che pare gli spettatori avevano anticipato d’assai sugli attori, poichè da una buona oretta ciascuno s’era appostato e aveva avuto tempo di accaparrare una pietra, una nicchia, una sedia, di raschiare, di soffiarsi, di stirarsi, di dire sessanta volte al minuto: — Che bella giornata!... ma un po’ freschetta — senza però che il sipario desse segno di muoversi, e che un personaggio qualunque comparisse sulla scena. Ora siccome in quel teatro mattutino, continuiamo la metafora, la musica faceva diffalta, così noi cercheremo di riempire il vuoto, dando, a guisa di sinfonia, il prologo degli spettatori, avendo l’onore di assicurare il lettore che non ne sarà mai tanto lacerato quanto lo saria stato dai miagolati dell’unico violino e dal grugnito dell’unico contrabasso che componevano la orchestra del villaggio di X...

Nella spezieria, specie di posti scelti, c’era come a dire la crema degli omoni e dei maggiorenti. Oltre allo speziale Romeo, il sindaco Salomone Arena, don Fulgenzio parroco, don Spiridione curato, il maresciallo dei carabinieri Malagana, il cancelliere Frustadenti e la sua consorte Atalanta nata Magrograssi. Sulla terrazzina che poteva passare per una loggia, la solita frega delle mamme colla solita mostra delle figliuole da marito, la più fraschetta delle quali, sorrideva alle galanterie tutt’altro che matrimoniali che le veniva sfringuellando il figlio del sindaco, Adolfo Arena, ganimede del villaggio, chierico schiericato. La botteguccia del barbiere, la piazza, le strade, che ponno pigliarsi per la platea, erano occupate [71] dal popolino al quale non resta che accomodarsi della parte di coro.

— E non si vede ancora nulla sullo stradone — saltò su interrompendo un momento di silenzio generale il cancelliere Frustadenti, un omicino piccino come il noto Tom Pouce, ma più alto di gambe che di torso, onde ricordava lo struzzo, nera la barba che si radeva una volta alla settimana e che pareva una spalmata di nero d’avorio, neri i capelli corti e ritti come le penne d’un riccio, neri i sopraccigli e gli occhiali in grazia d’una malattia d’occhi che lo costringeva come le nottole a schivare la luce, e perciò vedendo nera ogni cosa scambiando sovente nell’esercizio delle sue funzioni il colore della carta con quello dell’inchiostro, onde riscriveva spesso sulla medesima linea e cancellava non di rado quello che aveva scritto con quello che scriveva. Malgrado la sua picciolezza tenebrosa, e fors’appunto perciò, egli era pieno di sè, vano, ostentatore, trinciatore, ridendo solo soletto dei propri epigrammi, raccontando inesorabilmente a tutti due o tre prodezze della sua gioventù, citando in ogni discorso tre o quattro sentenze di autori che non aveva mai letto, sapendo dire il nosce te ipsum ma non appropriandoselo mai, storpiando a memoria due o tre terzine di Dante e avendo inventato una biografia sua particolare del Metastasio che faceva nascere a Mondovì, guardandosi in giro quando aveva pronunciato un parere, rialzando la sua statura, con un cappello a cilindro (nero s’intende) alto quasi come lui e una cravattona nera proporzionata al cilindro, camminando [72] sempre ritto ed impettito come un caporale tedesco, e per corona a tutto questo scrivendo Itaglia col g e P’ho in questo modo. Ma oltre a questi meriti letterarii che l’avevano fatto scegliere per cancelliere del Comune, egli aveva i morali che il sindaco cavaliere sapeva conoscere e ricompensare.

Nessuno infatti avrebbe potuto ordire un intrigo, mascherare una trappola, dare di fiato nella tromba della popolarità, straziare la riputazione di un avversario meglio del piccolo Frustadenti; laonde egli era per Salomone Arena un confidente, un aiutante e un portavoce sicuro e prezioso.

— Eppure, salvo gli errori del popolo, non dovrebbero tardare molto a comparire — rispose al cancelliere, il Romeo speziale, un buon diavolaccio in fondo, ma curioso, leggero, pettegolo, acchiappa-nuvole, credenzone, brutto, arruffato, sporco sempre, bisunto dei suoi oli e inzaccherato dei suoi decotti, tirato e sparagnatore per sè, ma non esoso verso gli altri, pratico della sua cucina farmaceutica e a dir vero tutt’altro che ignorante, ma appunto a cagione della sua curiosità e della sua credulità, che son le madri della mutevolezza, un titubare sospettoso sul conto degli uomini e delle cose, un’incertezza guardinga nei giudizi e nelle parole che lo avevano condotto ad adottare per intercalare dubitativo di tutti i suoi discorsi: «salvo gli errori del popolo».

— E quanti saranno i carrettoni del fittaiolo? — fece il salumaio Giosafatte, un coso tozzo, grasso della propria e della grascia della bottega, che non aveva mai potuto uscire [73] quanto a fortuna della più grama mediocrità, meno assai per colpa propria, chè citrullo non era, o delle aringhe che smerciava, che per colpa della mogliera che me lo aveva regalato di dodici figli i quali colle loro ventiquattro mascelle rodevano i frutti del paterno commercio. Nulla ostante, se non era stimato per ricco, era stimato amico dei ricchi, della proprietà e dell’ordine, quindi favorito di un certo credito presso Dio e presso Cesare, quindi consigliere comunale, fabbriciere e priore della dottrina comunale.

— Da otto o dieci — rispose Romeo.

— Cosa vi salta in mente... da otto o dieci!... non tanta abbondanza amico caro, interruppe il cancelliere.

— L’han detto anche a me... salvo però sempre gli errori del popolo — replicò subito lo speziale malcontento di non aver premesso a tempo il suo intercalare.

— Ma per condurre l’affittanza del Calandrina ci vuoi roba e capitali; se no gli è come possedere il basto e non il ciuccio. Non è vero; signor arciprete? — disse Giosafatte.

— Pare anche a me; la è una tenuta che non si coltiva mica colle intenzioni come la vigna del Signore — rispose l’arciprete don Fulgenzio.

— Specialmente quando le intenzioni sono cattive — sparò fuori con una gran risata il piccolo cancelliere, gonfio come una rana di questa sua annacquata spiritosità. Gli altri pure accompagnarono con una di quelle risate false e stentate che non trova paragone se non col riso artefatto dei comici sulla scena [74] e che vuol quasi sempre significare: «Ridiamo, ma non sappiamo il perchè».

Solo il sindaco aveva ben compreso e per questo fu il solo che finse il contrario. Egli perciò domandò il cancelliere «dove volesse parare con quel suo motto!»

— Eh... a nulla, signor cavaliere.

— Dite, dite — fece lo speziale pungolalo da tutti gli aculei della curiosità.

— Vuol farsi pregare come una damina — esclamò il maresciallo sogguardando maliziosamente la signora Atalanta di cui mirava a fare la conquista. E la signora Atalanta — una specie di botte ambulante, come se ne veggono tante nelle caricature di Gavarni e di Cham — colta a volo l’allusione, avvallò modestamente gli occhi ed esalò dall’otre del suo petto tale sospiro che tre o quattro ricette distese sul banco di Romeo volarono via.

— Ma lei signor maresciallo deve saperne più di me — rispose il Frustadenti.

— Il primo dovere della mia carica — rispose solennemente il carabiniere — è sapere e tacere.

— Eh... via... dite su — fece il salumaio — se un forestiere capita nel paese sta bene conoscere chi è e chi non è. Se è un galantuomo o un mariolo.

— E religioso sopratutto — aggiunse il curato Spiridione.

— Buono!... buono!... le son giustamente queste qualità che Battista Santafiori possiede — disse il maledico cancelliere con un tuono d’ironia, che nemmeno quei citrulli poteano ingannarsi.

[75]

Romeo era lì per scoppiare: un sottilissimo sorriso sfiorava le labbra taglienti di Salomone Arena.

— Eh!... parlate una volta — saltò su la signora Atalanta — se nol volete dire voi, lo dirò io che avete ricevuto una lettera di Genova, che racconta per filo e per segno vita e miracoli di questo «lupo di mare che minaccia di piombare in mezzo all’ovile e disperderlo come la neve del deserto al soffio dell’aquilone».

La signora Atalanta che poteva passare per un’agreste azzurra, leggiucchiava romanzi, e questo mazzetto di scelte comparazioni era un saggio delle sue letture.

— Una lettera da Genova — sclamarono tutti quanti — mostratela: fuori la lettera... viva la lettera.

— Ma se il signor cavaliere permette... — interrogò il Frustadenti.

— Io? me ne lavo le mani — rispose il sindaco piantandosi sulla porta colle spalle voltate al cancelliere come per testimoniare «ch’egli non ascoltava». — Non vorrei — continuò — si pensasse che io serbo rancore al nuovo fittaiolo perchè m’ha portato via il boccone dal piatto.

In fatto egli ascoltava e godeva.

— Invece di leggere, vi dirò il sugo. La lettera è scorretta; dei gargarismi, dei sillogismi.... cose da nulla, ma che guastano l’effetto.

Gli uditori presero quelle due parole per barbarismi e solecismi, e Frustadenti tirò dritto.

[76]

X. L’ARRIVO.

— Battista Santafiori non si sa bene di che paese sia: egli porta due o tre nomi, laonde il mio amico argomenta benissimo che debba essere bastardo. Questo è il meno male. V’è però chi si ricorda d’averlo veduto ragazzetto partire da Genova lacero come S. Quintino, e tornare dopo trent’anni ricco sfondolato, con moglie e figliuoli e una squadra di servitori. Da quello che s’è potuto attingere da fonte certa, in America deve aver fatto il traffico dei negri, venduta carne umana. Altri soggiungono, anche il contrabbandiere e il pirata; ma noi per non fallare possiamo ben dire che un mestiere non avrà escluso l’altro. E qui notate che egli non contentavasi solo di pirateggiare la roba altrui, ma anche le persone, e prova ne sia che sua moglie... non è sua moglie, ma una donna che ha rapito, credesi alle Tonsille.

— Vorrete dire alle Antille, salvo gli errori del popolo — interruppe Romeo, il più istruito della brigata.

— È lo stesso: tutto il mondo è paese — esclamò il pubblico malcontento dell’interruzione.

— Ma quel che è certo è, che egli ha sempre trattato la donna come una schiava.

— Quale orrore!... fece Atalanta con una girata d’occhi al maresciallo.

[77]

— Il bello viene adesso. Tornato dall’altro mondo, comperò tenimenti e case nei dintorni di Nizza. E lì, sfoggi e sciali, elemosine da principe, salari grassi ai lavoranti, corte bandita agli ospiti, e tutto, bene inteso, per accattare le scappellate e i battimani dei gonzi che lo stavano a guardare. Ma che credereste!... Alla fin fine la corda troppo tesa si ruppe, e si venne a scoprire che il quod superest date pauperibus era denaro del diavolo.

— Come del diavolo?... — chiese Giosafatte che era un po’ superstizioso.

— Eh sì, certamente. Non è forse denaro del diavolo quello che si truffa a prestito, senza sapere come e quando si potrà pagare? Allora non occorse altro. Fu una leva in massa di creditori; l’amico fu denunziato e confidato alle cure degli uscieri.

— E pagò?!... — disse il maresciallo per ingannare il marito, mentre stringeva di soppiatto la enorme mano di Atalanta.

— Ah questo, maresciallo mio, è un mistero. In prigione non ci fu cacciato; forse avrà battuto moneta falsa e pagato con quella. Fatto sta ed è, che allora dovette battere in ritirata e ripigliare il suo solito mestieraccio sul mare; e su questo bisogna levargli tanto di cappello, chè il mio amico di Genova me lo dà per un vero orso bianco. Ma sia che il mare l’abbia castigato di tutte le bricconerie consumate su di lui, sia che l’industria della moneta falsa siagli ita a male, sia che i creditori me l’abbiano spennacchiato davvero, il caso è che egli tornò a restar nudo come il palmo della mano. Fu allora che Santafiori tirato [78] dal lecco della Calandrina venne a cascare fra noi.

— Per fare altri debiti — fece il salumaio.

— Dovrà essere così, perchè il lupo perde il pelo e non il vizio. Eppoi senza capitali, e di grossi, la Calandrina è una mignatta, un tarlo che roderebbe gli scudi nello scrigno, non è vero, signor sindaco? — chiese il cancelliere.

— La doveva pigliare io per dodici mila lire all’anno, ma il forestiere di cui credo che abbiate parlato, glie ne volle dare quindici. Ora io credo sulla coscienza mia che quindici mila lire non si possano cavare da quelle terre. Quel pover’uomo si rovinerà se pure ha dei fondi.... che questo non si sa.... e a me ne duole, ne duole davvero, tanto più che è padre di una famiglia, sento dire, numerosa.

Il cavaliere sapeva l’arte di accompagnare le parole col tuono, colla faccia, cogli occhi, coi sospiri, tanto che ben pochi avrebbero potuto intendere che non parlasse col cuore in mano.

— Lei è buono, signor cavaliere, ma stia un po’ ad ascoltare — continuò il cancelliere. — Il mio corrispondente di Genova in un poscritto mi aggiunge d’aver saputo dal suo padre professore, un reverendo della compagnia di Gesù, che il Santafiori sia, in politica e in religione, una vera peste. Pare che in altri tempi sia stato un seguace di Murat e della Dea Ragione, e il gesuita sospetta a ragione ch’egli sia «per lo meno» ateo, per non dire luterano e calvinista. Certo è che i figliuoli non conoscono acqua di battesimo nè ginocchiatoi [79] di chiesa, e se volete la cornice di questo bel personaggio, sappiate ch’egli bazzica Framassoni e Giacobini, dei quali il nostro maresciallo potrà dirvi le gesta.

— Ah sicuramente, e che gesta! — rispose in fretta il carabiniere interrotto bruscamente in una delle sue strette più eloquenti colla romantica Atalanta.

— Un luterano?... Non ho abbastanza rotture di capo, dovrò anche aprire un giubileo contro gli eretici! — esclamò il parroco don Fulgenzio, che era lui un ritratto di don Abbondio, tipo eterno dei nostri preti campagnoli, amante della quiete, odiatore delle novità, timoroso d’ogni ombra, e che tutto il ministero sacerdotale compendiava nel breviario, nella messa e nell’assoluzione di quei quattro peccatucci che la popolazione di X.... veniva regolarmente a raccontare, come alla scadenza delle decime deponeva le uova. Ora l’avere in parrocchia un tale che, al dire del cancelliere, era peggio che ateo, gli pareva il principio d’una serie di disturbi, di dispiaceri, malanni, d’indigestioni, di notti insonni, che il povero prete non si sentiva in grado, non che d’affrontare, nemmeno di pensare.

— Quanto al framassone ci penso io — disse il maresciallo — e basta che il signor sindaco e il signor arciprete mi dieno man forte.

— Io le credo spiritose invenzioni; ma la mia fedeltà al re vi è nota — fece il sindaco Arena.

— Io farò quel che posso; ma che man forte vuole che le dia?... — disse don Fulgenzio tutto conturbato.

[80]

— Zitto!... attenti — grida a un tratto Romeo — ecco gente che si muove; c’è della polvere sullo stradone; arriva ora.... è in carrozza.... è in calesse....

E i piccini si rizzavano sui piedi; i forti ponzavano di gomiti, i ragazzi s’arrampicavano sugli alberi, tutti gli sguardi degli spettatori, dalla spezieria, dalla barberia, dall’atrio della chiesa e dal palazzo del comune erano rivolti verso un punto solo: lo stradone che Romeo aveva additato.

Chi arriva?... Una carovana di principi?... Un serraglio di mostri marini?... Il convoglio di Dulcamara o il corteo d’un condannato a morte?... Nessuna di queste ghiottornie delle folle.

Una rôzza, vecchia e secca, ma ancora robusta che strascinava al passo un calessino a quattro ruote tutto logoro e scassinato nel quale stava pigiata una nidiata di sette persone che col loro peso facevano sudare quella veterana di tutte le cavalle e quel decano di tutti i cocchi, e dietro loro, a trecento passi, le cime ondulanti di tre carrettoni carichi di masserizie, di stromenti rustici e di provvigioni; ecco quello che arrivava.

S’indovinava facilmente che era il convoglio d’una famiglia che tramutava di casa e che veniva a fissarsi nei dintorni; ma se fosse capitombolato sul villaggio il pallone di Nadar non sarebbesi svegliato tanto battibuglio.

Mentre sfilava non avresti udito uno zitto nel mucchio degli spettatori; parea quasi che passasse una processione di reliquie. La curiosità è una religione per un villaggio dove [81] ogni più lieta novità è un avvenimento che rimescola e conturba le acque stagnanti e immutabili della sua inavvertita esistenza. I commenti, le esclamazioni, i pettegolezzi, rattenuti a stento durante la marcia, scoppiarono poi tutti insieme come il cinguettio d’una uccelliera passato lo sparviero. E l’eco se ne prolungò per mesi ed anni.

Giunto il calesse sulla piazza, un vecchione, che era rannicchiato sul sedile d’innanzi con un bambino fra le gambe, levò il suo cappello a larghe tese e salutò rispettosamente la popolazione. Il resto della famiglia lo imitò, non escluse le due donne che piegarono più volte la testa.

Qualche villano rispose sberettandosi al saluto del vecchio; qualche donnetta agitò la mano in segno d’addio alle donne: gli spiriti forti della spezieria accolsero con una risata l’atto urbano del forestiero, il quale l’udì, ma finse di non accorgersene.

— Che villanzone!... disse Adolfo dal terrazzino.

— Che faccia da Fra Diavolo — disse il parroco il quale non sapeva di bestemmiare uno dei valenti difensori della santa madre chiesa.

— Dicono che sia uomo di molta carità — sussurravano alcuni poverelli appollaiati intorno alla chiesa.

— La fanciulla è belloccia! — pensava Adolfo; mentre per far la corte alla sua vicina, la paragonava «ad un’albicocca caschereccia».

E così via...

Carrozza e carrettoni, traversato il paese, [82] andarono a far capo all’ultima casa, dove entrarono facendo rimbombare fragorosamente l’acciottolato del cortile. Allora le porte furono chiuse e i curiosi lasciati di fuori; noi soli abbiamo il diritto di condurvi, se crede seguirci, il lettore.

XI. QUOD SUPEREST PAUPERIBUS.

Tutto quel giorno fu impiegato a rassettare la casa, a ripulire le mobilie e a distribuirle nelle varie stanze. Le due donne, le stesse che erano nella carrozza, dirigevano questa operazione diligente che è una delle prerogative del loro sesso e che le destina provvidenzialmente al regno della casa. In sulla sera coll’aiuto di venti o trenta braccia fra servi e contadini tutto era a posto, e ciascuno, come suol dirsi in tali occasioni, «poteva andare a dormire nel proprio letto».

Il salotto da pranzo che era anche la sala di ricevimento, era simile al salotto di papà Grandet, senza essere però nudo e grottesco come quello. Le pareti non avevano tappezzerie, ma non avevano nemmeno dipinture: una tinta in foglia morta e nulla più. All’interno pendevano dalle pareti quattro quadri: due grandi incisioni di Washington e di Balilla, e due quadri ad olio, che appena gettato l’occhio sulle persone di casa si vedevano somigliantissimi al padre ed alla madre della famiglia. [83] In giro alle due figure di Balilla e Washington una corona di medaglioncini di bronzo che rappresentavano personaggi celebri del tempo, come Fox, Canning, la Stael, Vergniaud, l’Empecinado, Mina, l’abate dell’Epée, Caracciolo, Parini, Chateaubriand, infine più di cinquanta. Sotto a Balilla una rastrelliera d’armi d’ogni tempo, di ogni forma e d’ogni uso, e tutte tersissime: appiedi ai due ritratti di casa due credenze affatto simili di legno di noce, lucentissime e sopra le quali stavano disposti in bell’ordine un barometro aneroide, una bussola, un medaglione, quattro o cinque pezzi di geologia, due vasi del Giappone, e infilato in una lampada d’ottone un berretto rosso da marinaio. Tutto era assettato; nessun cencio sulle seggiole, nessun ragnatelo sugli angoli; intorno al camino due seggioloni sui quali non sedevano mai altri che il padre e la madre; candide, semplici e tagliate con gusto le cortine delle due finestre, lucido il pavimento, limpidi i vetri, infine un’aria di eleganza casalinga dappertutto che piaceva assai più d’un lusso sfarzoso. Là dentro Teniers vinceva Paolo Veronese.

La famiglia era attorno ad una tavola imbandita colla stessa semplicità e candidezza per la cena. Il modesto pasto era finito e i commensali guardavano in silenzio e quasi assorti il capo della casa seduto colla sua donna ad una delle estremità della mensa.

Era desso un vecchio il quale non dimostrava più di sessant’anni, ma che ne aveva realmente ottanta. La sua persona era alta, le spalle quadre e il portamento diritto, le mani corte, [84] sottili ma callose; la testa era magnifica e avrebbe fatto pensare a Catone come lo descrive Dante, con qualcosa del tipo di Socrate come lo ha scolpito Magni.

Una lunga e bianca chioma, la quale ai raggi del sole s’indorava ancora del biondo colore degli anni giovanili, cadevagli ben ripartita sull’omero. Nella fronte ampia e prominente, il lume scintillante di due occhi neri, i quali, ora placidi e soavi, ora profondi e severi, rivelavano, nella loro originale schiettezza, le passioni dell’anima sua e le riflettevano diremo quasi come cristallo prismatico lo spettro solare. La barba tessuta di sottilissimi fili d’oro e d’argento, folta, lisciata e prolissa, gli scendeva fino al petto in doppia lista e aggiungeva la maestà d’un pontefice a quella testa d’atleta; il naso piccolo un po’ arricciato, indizio di certa finezza; le labbra piuttosto grosse, indizio di certa bonomia, i denti nitidi, il collo taurino compivano quest’immagine che pareva un eroe di Plutarco o un modello di Michelangelo. Il vestire non ricordava più nessuna moda, ma era tutt’altro che eccentrico; semplice, grave, e come oggi suol dirsi: a sè. Raramente camicia bianca, quasi sempre colorita, e il di cui collo, largo e sbottonato, andava a spiegarsi sul collaretto del suo giubbone di velluto che, contro le mode del tempo, portava basso e sottile. Per capire bisogna ricordarsi i ritratti di Byron e di Foscolo; ma tutto men chiassoso e meno ricco. Mai panciotto; il giubbone poi a taglio di soprabito coi bottoni d’acciaio indossava men che poteva, per freddo o per forzata cerimonia, ma indossato abbottonavalo [85] fino al mento. Le brache pur di velluto e larghissime: intorno al fianco una fascia rossa amplissima; o un cappello molle a tese d’ombrello, o una berretta chiozzotta sul capo; ghette o stivaloni ai piedi. In due parole, senza giubbone si vedeva un marinaio ricco, col giubbone un quacchero un poco mondano: in ogni abito la dignità e la forza. La voce aveva carezzevole e melodiosa, all’uopo tuonante e terribile. Raro il sorriso, ma quando brillava sulle sue labbra era franco ed aperto e vi durava a lungo. Come colui che nulla aveva a celare, non sapeva che fosse il sogghigno che si increspa e dispare, e che è la parola della ipocrisia. Così rideva ancora più di raro; ma ridendo lasciava sfogo libero alla sua giocondità che scoppiava istantanea, sonora e fragorosa. Non conosceva lagrime fuorchè pochissime di gioia, ma in cambio conosceva assai il dolore che s’era condensato dentro di lui appunto perchè privo di sbocco.

Quest’uomo, non abbiamo mai presunto celarlo, era il nostro Battista Santafiori; la donna ch’eragli al fianco Rosalia; la famiglia assisa intorno a loro, Giorgio, Livia, e il piccolo Balilla.

Quanto a Michele, al ritirarsi dell’armi napoleoniche, era passato, senza difficoltà e senza sforzo veruno di coscienza, nell’esercito piemontese, e arruolato col grado di sottotenente nei Dragoni della Regina. Stanziava a Mortara dove menava la vita monotona, viziosa e snervatrice di tutti i presidii. Della famiglia raro risovvenivasi, e solo per chiedere denari o per dire che li aveva ricevuti.

[86]

Battista era pure pensieroso e contemplò per lungo tratto la sua famiglia senza parlare. Alla fine ruppe il silenzio così:

— Oggi, miei cari, comincia un’altra vita. È una nuova stazione a cui siam giunti e speriamo che sarà l’ultima. Le disgrazie che ci hanno percosso, ci hanno costretto, per essere fedeli all’onore, di vendere quel po’ che si possedeva, e dalla ruina non abbiam potuto salvare che venticinquemila lire o poco più. Con questo io spero ancora di assicurarvi il pane. La fattoria che abbiamo presa ad affitto qui, coltivata con economia e con amore, darà largamente il frutto del capitale. Si poteva forse pagarla meno, ma era proprietà dell’amministrazione dei poveri, e non si poteva esercitare usura su di essa. Del resto, accada quel che vuole, io so nella mia vita di aver compiuto il mio dovere, e se dovessi riprincipiare da capo non cambierei certamente di strada. Gli uomini non mi hanno compensato; la Provvidenza fu troppo spesso severa, ma in cambio la coscienza fu sempre serena e vincitrice. Io non ho che un rimorso, e questo è sincero. Quello d’avermi voluto fare una famiglia, che colle mie idee e nella battaglia continua in cui era avvolto, io non poteva nè custodire nè proteggere. So che voi non me ne fate rimprovero, ma la coscienza me lo fa e basta. Però dacchè il destino ci ha voluti congiungere nella sventura, è nostro dovere portar tutti il fardello che ci è dato sulle spalle; le mie son vecchie, ma lo sosterranno. Vostra madre è una santa e noi tutti possiamo trovare sul suo seno rifugio nelle traversie e un [87] conforto nella sventura. Intanto inauguriamo questo nuovo periodo della vita con una buona azione: sarà il miglior brindisi che possiamo fare. Voi sapete che io ho promesso a Michele duemila franchi all’anno finchè avrei avuto braccio per guadagnarli: il braccio è buono ancora, bisogna dunque mantenere la promessa. Egli ha scritto a sua madre, chiedendo la sua pensione qualche mese prima. Io l’avrei subitamente esaudito, ma vi devo confessare, cari figliuoli, che non ho più un soldo. Le spese d’impianto dell’affittanza mi hanno spelato. Ora io ho pensato a un rimedio straordinario, ma non so se vorrete votarlo...

— Lo votiamo, lo votiamo... — fecero in coro i ragazzi.

— Ebbene, il rimedio è nell’associazione, parola che quando sarete più innanzi comprenderete. — Si tratta d’una colletta fra di noi. Ciascuno offrirà per la pensione di Michele quello che crederà. Io, per esempio, dono il mio orologio, già mi è inutile perchè mi regolo meglio col sole... Mettiamo quattro o cinquecento franchi... ma badate che bisogna averne duemila... A voi Rosalia — fece Battista stendendo un piatto per raccogliere le offerte.

Rosalia alzò su Battista uno sguardo pieno d’ineffabile gratitudine.

— Quest’anello — rispose essa, levandosi dal dito un anello d’oro a brillante che poteva costare i due mila franchi solo esso.

— Eh, eh!... siamo già ricchi! E tu Livia?

— I miei pendenti, babbo — e la fanciulla si staccava i pendenti e li deponeva sopra il piatto.

[88]

— Vediamo ora Giorgio.

Giorgio non contava allora più di quindici anni, ma aveva la serietà d’un uomo.

— Non ho altro che il mio archibugio, ma...

— Ti duole privartene?!

— Un poco.

— Ragione di più per donarlo.

— Ebbene, ve lo dono.

— Ora a Balilla — disse Battista. — Che cosa offri tu di regalo a Michele?

Tutti si posero a ridere.

Il fanciullo s’era risparmiato la mela della sua cena. Egli la guardò in atto di ultimo addio e la gettò sul piatto gridando:

— La mia mela!

Tutti risero di nuovo, ma colle lagrime agli occhi.

— Ora veniamo ai conti. Coll’anello della mamma e il mio orologio, io penso che la somma sia trovata, ci avanzeranno dunque gli orecchini di Livia e lo schioppo di Giorgio.

XII. CHI ERA SALOMONE ARENA?...

Era il sindaco del villaggio, cavaliere di S. Maurizio e Lazzaro, che ai suoi tempi non erano ancora divenuti i soliti Santi.

Il Cavaliere, siccome per sineddoche lo chiamavano nel paese, prendendo la parte per il tutto, era rampollo d’una famiglia di vinai, possessori di fiorentissimi vigneti nei dintorni [89] della Lomellina e del Lungo Po, i quali avevano razzolato una portentosa fortuna, ora maritando alle bionde acque del fiume natìo il vino che vendevano all’ombra delle leggi e per cui pagavano gabella, ed ora esercitando un tolleratissimo contrabbando dall’una all’altra sponda dell’Eridano, fra Piemonte e Lombardia, di tutto l’altro vino che non annacquavano.

L’uno di essi, padre del cavaliere, in virtù di parecchie serque di bottiglie vergini regalate a S. E. il governatore della provincia, e più ancora per il ricco censo e per una fama di probità — assai dubbia per noi — era stato eletto sindaco del suo comune ed aveva esercitato le funzioni della sua carica fino al 1798, anno della sua morte e della presa del Piemonte fatta dai francesi.

Il figliuolo perciò trovossi in sui trentacinqu’anni possessore d’un bel milione rotondo in terreni, senza contare il denaro e i capitali che nessuno sapeva precisare, ma che potevano girare intorno ai cinquantamila scudi.

Ma, quanto il babbo era tagliato alla buona, altrettanto sentiva il figlio la prurigine aristocratica dell’opulenta borghesia; epperò, appena fu padrone di sè, non volle più saperne di accompagnare ai mercati la carretta delle tinozze e dei barili, e dedicossi esclusivamente a far coltivare i suoi campi e ad erigere case, non tralasciando mai però di applicare anche in queste industrie i probi ammaestramenti paterni e ingrossando a ogni giorno o per fas o per nefas l’avita eredità.

All’epoca in cui noi lo incontriamo, nel 1820, il nostro nababbo lomellinese era un ometto [90] in sulla sessantina, grigio, secco, gobbetto, giallognolo, con due occhietti da faina sopra un mostaccio da volpe, goffo nel portamento, volgare negli atti, nei giorni ordinari vestito alla carlona degli avanzi disusati della domenica, nelle solennità lucido, inamidato, malgrado suo grottesco, e non scordandosi mai d’avere in tasca una buona scorta di foglie di porro, caso mai quella che verdeggiava perennemente agli occhielli di tutte le sue giubbe si perdesse o si gualcisse.

Economico di parole, perchè calcolatore, cauto, astuto, versipelle, ostinato più d’un mulo, amico di nessuno ma cortigiano di tutti quelli che potevano essergli utili per splendore o per denaro; nell’esercizio del suo sindacato cercatore assiduo dell’aura popolare, purchè l’acquistarla nulla dovesse costare alla sua borsa o alla sua autorità, spregiatore segreto dei bisognosi, tanto più se onesti, ma spettacoloso nelle beneficenze come tutti i principi... d’una volta; largo coi preti e coll’altare, sapendo che il suono dei soldoni gettati a messa grande nel bossolo del questuante è più argentino di quello degli scudi deposti oscuramente nelle mani del povero; istruito tanto che basta per non ingannarsi sulla moneta che corre, e sapere a memoria i titoli di tutti gli alti dignitari dell’almanacco del 1798 e le feste del calendario ufficiale; baciapile e devoto non per amore del paradiso ma per paura dell’inferno, e nulla meno rinfrancato quanto ad esso dalle rivelazioni dei padri gesuiti, dei quali, alla loro venuta in Piemonte, erasi fatto patrono, soccorritore e confidente, e da cui in concambio [91] aveva ricevuto la comodissima dottrina «delle intenzioni oneste, delle restrizioni mentali, del male perdonabile se non scandaloso» con tutte le altre teorie dei secreta monita societatis Jesus, de’ quali eragli stata comunicata una copia.

Quanto a patria non ne parliamo. Vi sono de’ ghiri, crediamo, che amano la tana dove possano ronfare in pace i loro sonni; ci sono degli orangotani che sentono riconoscenza per il ramo di sicomoro che li sfama e li ricovera, ma ci sono degli uomini più duri dei ghiri, più insensibili degli orangotani, che considerano la patria come il poderetto di cui parla Giusti:

Da sfruttare e nient’altro.

Inoltre la patria era abolita dal messale e dal codice, e sarebbe stata cosa non solo inutile, ma pericolosa per un sindaco cavaliere l’occuparsi d’una cosa che dalla Chiesa e dalla Corte era sbandita. Non si induca da ciò ch’egli fosse politico a guisa di Don Girella: tutt’altro. Quando Don Girella ci conta

Che nelle scosse

Delle sommosse

Tenne per áncora

D’ogni burrasca

Da dieci a dodici

Coccarde in tasca

ci si mostra di tale ingenuità che il cavaliere, se l’avesse conosciuto, l’avrebbe compianto.

Barcamenandosi fra tanti scogli, cantando a un tempo

Le Giunte i Club i Principi e le Chiese

[92]

stare sempre a galla senza naufragare

Mangiando i frutti

Del mal di tutti

può essere l’ideale della scienza, ma in pratica è cosa oltre il possibile. Il cavaliere la avrebbe chiamata un’utopia.

— In fin dei conti — soleva spesso rimuginare il cavaliere — in fin dei conti, a qualche santo bisogna accendere il lume. Chi tasta i rami e non ne abbranca nessuno casca in fondo. Colpo d’occhio ci vuole sicuramente... ma poi scegliere. Gli è un conto anche questo e bisogna badare di non fallarlo. Quando mio padre vendeva il suo Groppello forse che pensava soltanto a migliori prezzi? Baie!... Pensava anche alla sicurezza dei pagamenti... Non dico nè della ragione, nè del diritto; queste pappolate non pesano un grano: qualche volta possono servir bene come insegna; ma l’oste sa che l’insegna non fa il buon vino... Ora, tutto sommato, io credo più sicuro il Re che i giacobini; e Napoleone a lungo andare si tirerà addosso tutto il mondo, non esclusi i suoi Francesi che non sanno mai quel che si vogliono. No, no... tutto questo tramenìo mi assorda ma non mi toglie il cervello... Eh!... Salomone sa dove va... Per ora fin che passa il temporale, mogi, e pensieri a casa; ma sempre agguantati al più saldo... e più saldi del papa e dell’imperatore che ci ha da essere?... Pinco?... Or dunque concludiamo, Arena mio; acqua queta, ma sempre verso Vienna e verso Roma... e alla prima sfinestrata di sole ben chiaro, fuori del guscio ed «evviva...» evviva [93] chi mo? To!... Evviva chi governa... ma già governare non può che re Carlo Emanuele IV e Papa Pio VI. E se non andasse così?!... Bah! a questi sonagli — e picchiava gli scudi che aveva nelle tasche delle brache — non c’è orecchio che faccia il sordo.... ma Bonaparte trionferà?... c’è sempre tempo e vedremo.

Il lettore capisce che don Girella, se fosse proprio esistito, poteva essere suo scolaro.

Salomone perciò, da buon generale, non perdè mai di vista il punto obbiettivo della sua tattica; non gridò mai «viva i Giacobini» perchè li guardava come sparvieri di passaggio e nulla più, non fece mai professione di fede a Carlo Emanuele IV perchè gli pareva che anche lui ciurlasse sempre nel manico, e inoltre le manifestazioni pubbliche stimavale imprudenze da bambocci.

Per le sue terre passarono via Tedeschi, Francesi, Russi, d’ogni maniera lanzichenecchi direbbe il Guerrazzi; ma lui pronto a ricever tutti col medesimo sorriso, col medesimo bicchiere di vino annacquato, col medesimo fascio di legna un po’ umido, col medesimo letto imparzialmente marmoreo.

La sua casa, come la più comoda e ricca del paese, era sempre designata per ospitare i generali; e poichè egli, come dicemmo, non sapeva far distinzione di nazione e di bandiera ne’ suoi trattamenti, così i generali partivano tutti contenti ad un modo non senza averlo regalato di qualche loro personale ricordo.

Salomone aveva una pipa di Melas, un paio di stivali di Suwaroff e un frustino di Lannes...

— Potrebbero venir buoni — pensava; ma [94] nell’istesso tempo non osava lasciarli in vista e li rinchiudeva, proibito a tutti di casa il farne parola.

Quando, dopo Marengo, il Piemonte cadde in potere del Bonaparte, re Carlo Emanuele abdicò e ritirossi in Sardegna, egli analizzò la situazione e calcolò in lire, soldi e denari se o no gli convenisse con un atto qualsiasi, anco cauto, anco segreto, manifestare alla monarchia proscritta la sua divozione, e conchiuse che no.

— Vedremo il successore... Re che abdica puzza sempre di fallito e non fa per me.

Nè l’irrompere del torrente Napoleonico lo deviò dalla sua strada o gli fece mutare di tattica.

Solamente, quando vide che la voracità e la distruzione erano universali, capì che sarebbe stata stoltezza non prendere un posto a quel vasto banchetto dove i più contumaci e puritani allegramente sedevano, certi che il tintinnio dell’armi e il bagliore delle conquiste confonderebbe il sonito delle loro mascelle, e il ludibrio della loro defezione.

In altre parole, comprese che egli pure al pari di tanti altri, che possedevano quattrini e destrezza, poteva ingrossare d’una locusta di più lo sciame già innumerevole degli impresarii o fornitori d’esercito, e immergere, senza nemmeno parere, la sua grinfa nei tesori e nel sangue dei popoli.

E così fece.

Dubitando però che la nuova industria potesse passare abbastanza inosservata, e guastarsi i semi del futuro, mandò di soppiatto a [95] Pio VI a Savona il dovizioso presente di una scatola d’oro tempestata di gemme, implorando l’apostolica benedizione assieme ad una riga di commendatizia per la bigotta regina Maria Teresa d’Austria, profuga col marito in Sardegna.

— Un colpo al cerchio e l’altro alla botte — diceva a sè stesso, ricordandosi il proverbio del padre vinocultore.

Alla fine il colosso rovinò, e in compagnia dei re d’Europa, tirò un gran respirone anche Salomone.

Quando re Vittorio Emanuele I, succeduto al fratello Carlo Emanuele, reduce dallo esiglio, sbarcava a Genova coronato dall’aureola del martire e preceduto dalla fama di benefattore, Salomone Arena non potè accorrere a festeggiarlo, perchè la moglie incinta avevalo presentato in quei dì di un frutto delle sue viscere e del così detto suo amore; ma in compenso Salomone bandì gran festa per tutto il villaggio, offrì un desinare sontuoso a tutte le autorità, e battezzò il neonato col nome del principe restaurato «Vittorio Emanuele».

Ognuno sa, o non sa, che allorquando questo re risalì sul trono dei suoi padri si trovò stranamente imbarazzato per mantenere la reale parola data «a’ suoi popoli» di rimunerare i fedeli servizi, di castigare le perfide ribellioni, di rendere a tutti quanti la dovuta giustizia.

Ora è noto che una valanga simile alla rivoluzione francese e all’impero napoleonico aveva tutto travolto e scombussolato: leggi, diritti, abusi, proprietà, chiese, tribunali, costumi, arti, letteratura, idee.

[96]

È chiaro ancora, che il cataclisma in mezzo a tante cose pessime ne aveva pur recate di buone, e che queste non potevano essere strappate dal seno della società nella quale s’erano radicate, senza lacerarla.

Ma così non la pensava il formicolaio di cortigiani che brulicava nelle anticamere della reggia. Nobili che avevano strisciato con imperturbabile servilità dalla corte del re legittimo a quella dell’usurpatore, rivolevano oggi gli aviti privilegi feudali; soldati che avevano combattuto nelle file del grande esercito, i loro gradi e le pensioni; preti che avevano cantato il Te Deum coll’istessa confidenza nei favori del cielo tanto pro rege nostro che pro nostro imperatore, le abbazie e le prebende; magistrati che avevano perorato in nome del codice della rivoluzione, le torture, i tribunali eccezionali; infine tutti, fedeli e infedeli, avevano un diritto, un monopolio, una carica, un privilegio da ricuperare, tutti avevano patito, tutti erano stati spogliati, tutti erano martiri della legittima causa del trono e dell’altare.

Le sono allumaccature di tutte le restaurazioni; e l’Italia lo sa.

Il povero Re perdeva la testa e non sapeva a che santo votarsi. Crediamo che si sarebbe deciso a riscappare a Cagliari piuttosto che dipanar tanto arruffata matassa.

Per fortuna sua, un inaspettato Paracleto venne in suo aiuto sotto le sembianze del conte Cerruti di Feletto.

Questo vecchio gentiluomo, non appena vide rovesciarglisi addosso il torrente della rivoluzione e tutto andare inabissato nei suoi vortici, [97] re, trono, religione, nobiltà, sentendosi incapace a lottare e volendo pur trovare una protesta ancora più eloquente di quella di Trasea Peto, si ritrasse nella sua terra di Feletto, chiuse gli occhi, turò gli orecchi, barrò le porte, proibì libri e giornali, e non volle più vedere o intendere cosa o persona alcuna che ricordasse anco indirettamente gli avvenimenti che succedevano intorno a lui.

Il suo castello, come l’arca di Noè, era il solo angolo dove non arrivasse il gran diluvio europeo. E però quando un giorno, un amico s’introdusse col ramo d’ulivo nel suo romitorio annunziandogli «che gli alleati erano entrati a Parigi e che l’imperatore aveva abdicato»:

— Che imperatore? chiese meravigliato il conte — Carlomagno o Francesco V di Lorena?...

E non disse di più, riabbassò il ponte del paterno castello e ripigliò la lettura delle origini di Casa Savoia di Ludovico della Chiesa, solo libro che gli paresse ragionevole.

Egli non conosceva ancora le storie del conte Cibrario. Peccato!

Alla fine quando udì ripetere da tutti i vassalli che Vittorio Emanuele I era sbarcato a Genova, si risolse, come don Abbondio dopo la peste, ad aprire un finestrino e lasciar penetrare un po’ dell’aria pura dei vecchi tempi che ritornavano; e finalmente quando seppe, ma proprio dalla Gazzetta Ufficiale, che il Re era giunto a Torino, peritossi a montare nella carrozza dei suoi padri e a ritornare nella reggia.

— Se egli è veramente il figlio di Carlo Emanuele, dovrà ascoltare il mio consiglio — rimuginava [98] strada facendo il conte. — Se no, lo crederò anche lui preso dalla lebbra di...; dell’altro — non voleva nemmeno dire a sè stesso, di Napoleone — e reo d’alto tradimento.

Il re invece andava cercando un consiglio, come Diogene l’uomo.

— Sire — gli disse il baccalare della dinastia dopo essersi inchinato tre volte — non c’è che un mezzo per far paga la giustizia e restaurare l’ordine.

— Additatecela, o conte, noi la seguiremo — disse il re al quale non pareva vero di sgravarsi il petto di quella pietra delle querimonie cortigianesche.

— La M. V. si degni prima di permettermi una domanda — riprese il conte con altre tre riverenze.

Il re cominciò ad abbuiarsi appena sentì quella parola «domanda» che gli fece presagire una delle centinaia di querele di cui era vittima ogni giorno. Tuttavia fece segno al conte di continuare.

— Vuole la M. V. restituire il suo regno alla felicissima condizione in cui trovavasi prima che... di... — e non volendo dire prima che Napoleone lo cacciasse via, perchè, lo ripetiamo, per lui Napoleone non aveva esistito.

— E certamente che lo vorrei — fece Vittorio Emanuele in tuono incredulo — ma come si fa?

— Con un metodo semplicissimo. — Il Re derogò fino ad alzarsi in piedi per ascoltare meglio. — V. M., continuò franco il Cerruti, non ha che a richiamare in vigore il Regio [99] Almanacco del 1798 con tutte le leggi, biglietti e disposizioni che vi si contengono.

— L’almanacco del 1798! — esclamò il re, — e dove si trova?

— Eccolo qui — soggiunse il consigliere, traendo dalle tasche della sua lunga giubba gallonata, ancora alla moda dell’almanacco summentovato, un vecchio volume legato in cartapecora.

— Qui c’è tutto per tutti — fece il Cerruti.

— Per i nobili?... — chiese S. M.

— Per i nobili!...

— Per il clero?...

— Per il clero!...

— Per i magistrati?...

— Per i magistrati!...

Il re guardò l’almanacco o per dir meglio il cartone, e dopo un po’ di pausa:

— Pubblichiamo dunque anche l’almanacco... ma ad un patto che voi vi incaricherete di applicarlo. Ricordatevi che al primo malcontento me la piglio con voi.

Il conte Cerruti s’inchinò glorioso e trionfante rispondendo sulla sua parola da gentiluomo dell’esito del suo ritrovato.

E così fu. Un editto regio del 1814 ritornò in vigore l’almanacco, la di cui unica copia dormiva nella guarnacca del Cerruti, e obbligò per giunta a osservare l’editto, non dal giorno della sua pubblicazione, ma della sua data.

Fu una rivoluzione in un altro senso.

Tralasciamo naturalmente le obbiezioni legali; tralasciamo la parte seria; basti il dire che il medio evo risuscitato veniva ad impancarsi in mezzo al secolo XIX ancora caldo [100] dello spirito di Voltaire e della parola di Mirabeau; basti il dire che la storia di quindici anni — e quale storia! — era cancellata come un poeta pentito cancella da una strofa un verso sbagliato.

Notiamo soltanto la parte comica: generali che erano basiti di freddo in Russia, magistrati che avevano la gotta, proprietari che non possedevano più un piede di terreno, ufficiali d’ogni specie e d’ogni nome, di corte e di gabelle, che erano morti od impotenti, rivivevano per taumaturga virtù dell’almanacco e lasciavano i cimiteri o le cliniche per rioccupare i posti sui quali quindici anni prima avevano seduto.

Lo strillare fu universale e doppio, ma anche in questa nuova confusione alcuni guadagnarono e fra questi non fu ultimo il nostro Salomone Arena.

L’almanacco del 1798 rinominava a sindaco suo padre morto all’anno stesso; ma quando Salomone si presentò al conte Cerruti allora ministro per dirgli:

— V. E. deve sapere che il favore regale arriva troppo tardi: — il conte che non poteva credere alla fallibilità del suo trovato, e non l’avrebbe inoltre confessata rispose:

— Ebbene, succedete voi. L’almanacco non riconferma forse il diritto ereditario?

Salomone naturalmente non rifiutò e nel 1815 si trovò sindaco del villaggio di X... in virtù dell’almanacco del conte Cerruti.

Passata la burrasca dei cento giorni e ben sicura che lo sconvolgitore era incatenato, la regina Maria Teresa poteva oramai tornare fra le braccia del regale consorte.

[101]

Essa venne, e col marito gli mosse incontro un nembo di cortigiani, di nobili, di frati, di beghine, di questuanti, di epitalamii, di discorsi, di Tedeum, di adulazioni e di bugie. Le luminarie, i banchetti, le limosine della cassetta particolare, le mostre, tutta la coreografia sacra e profana non fallirono all’usato ufficio; ma il popolo per il quale i re che vengono, o i re che fuggono, sono la suprema delle feste, aveva in quell’anno più fame di pane che di circensi, e lasciò entrare le carrozze della reduce regina sotto le volte di palazzo Madama, mutolo e impassibile, come se in quel corteo avesse veduto il ritratto della scarna carestia che sedeva al suo desco.

Ed era pure il fedele popolo piemontese, quello stesso popolo del quale un ministro d’allora non aveva esitato a dire: «Qui non c’è che un re che comanda, una nobiltà che circonda e un popolo che ubbidisce».

Fra lo stuolo dei questuanti accorse anche il nostro sindaco. Egli aveva due scopi, mettersi in grazia della Corte, e a questo gli servirono la pipa di Melas e gli stivali di Suwaroff, e far fruttare meglio che potesse la commendatizia che teneva da Pio VI per la regina Maria Teresa.

L’austriaca principessa baciò rispettosamente il santo autografo del pontefice e fece buon viso al presentatore.

Maria Teresa santocchia ed avara s’accorse che Arena era ricco e devoto, per fede o per arte a lei non importava, e pensò, sebbene ripugnasse assai alla sua regale superbia, mettere nelle sue confidenze il sindaco villanzone — pensò [102] di trarre tutto il partito dalla sua borsa e dalla sua bacchettoneria. Assunta perciò a forza quell’aria di maestosa umiltà, che la madre del santo re Luigi IX ha insegnato, dice il Nisard, «a tutte le regine,» prese a parlare a Salomone in questi accenti:

— Sapete, o buon uomo, che è nostra intenzione e santo proposito riedificare nei nostri Stati la chiesa di Cristo che la perversità degli uomini ha invano tentato di rovesciare, e di restituirle lo splendore e la grandezza in che i monarchi cristiani l’hanno sempre mantenuta. Però non abbiamo creduto poter meglio inaugurare questa santa impresa se non ripopolando lo Stato dei banditori più fedeli della divina parola, rialzando i chiostri, incoraggiando gli ordini monastici stranieri a rifugiarsi all’ombra del nostro trono, e infine chiamando fra di noi que’ possenti ausiliari della fede, quegli avventurati interpreti del cielo, che sono i padri della Compagnia di Gesù. Ma per quest’opera benedetta ci occorre l’aiuto di tutti i veri credenti e confidiamo che non indarno il vostro cuore religioso avrà ascoltato la voce della sua regina.

— Io non m’aspettava un tanto onore. Vorrà la M. S. offrire ai reverendi padri per il suo umile servo la somma di duemila scudi che sono in questo portafoglio.

E Salomone parlando così s’inginocchiava e presentava la sua offerta alla regina non senza accompagnare le diecimila lire con un sospiro d’addio.

— Il Signore vi rimeriterà — fece la regina; — noi vi facciamo cavaliere dei SS. Maurizio [103] e Lazzaro. Avete altra grazia da impetrare da noi?....

— È il momento di riguadagnare i duemila scudi — pensò subito l’Arena. — E fattosi coraggio e poggiato un altro ginocchio a terra cominciò:

— Maestà!... Nel mio granaio ho raccolto da novecento a mille staia di grano, frutto di dieci anni di oneste economie. Ora so che il re vostro consorte (allora non si diceva «lo Stato») sempre generoso e pio, pensa di riparare alla gran carestia che affligge i suoi ubbidientissimi sudditi distribuendo ai poveri del suo regno tutto il grano che poteva comperare. Io offro quello che tengo ne’ miei granai; ma la M. V. si degnerà di comprendere che io non potrei così sprecare i sudori della mia famiglia cedendolo a un prezzo minore del corrente. Se la M. V. si compiacesse...

— Intendo! — interruppe la regina. — Domani avrete un placet regio che vi autorizzerà a vendere il grano come volete. Ma ricordatevi dei nostri padri gesuiti.

— Ho già detto a V. M. che vita e sostanza sono nelle sue mani... — E Salomone Arena partì da Piazza Castello, franco dalla legge sugli incettatori, e padrone di vendere il suo frumento a prezzo d’usura, mentre il popolo spigolava indarno negli aridi solchi il pane che doveva sfamarlo.

[104]

XIII. LA FAMIGLIA DEL SINDACO CAVALIERE.

Tutta la sapienza del defunto babbo del cavaliere era nei proverbi e noi abbiamo forti ragioni per credere ch’egli imponesse al suo marmocchio il nome di Salomone per il gran rispetto che aveva per il Re Proverbiatore.

Comunque sia, quando nel verno del 1798 sentì i primi attacchi di catarro senile, papà Arena incominciò a proverbiare.

— Ah!... io me l’aspettava: «sereno d’inverno, pioggia d’estate e vecchia prosperitate non durano tre giorni» e dopo uno scoppio di tosse — «nè mai buon tempo lungamente dura» disse il vecchio senza sapere di recitare un verso dell’Orlando innamorato. «Quando la campana ha suonato è inutile dir di noi...» Regoliamo i nostri conti, spegnamo il lume e così sia.

E chiamato al capezzale Salomone gli sciorinò quest’altra litania:

— Senti!... «La morte non sparagna Re di Francia, nè di Spagna»... Io me la sento sulla groppa e se non ci sono pei capelli, poco ci manca... «Ma già chi nasce convien che muoia»... Prima però di fare quest’altro viaggio ti devo dare un consiglio, figliuolo mio. «Consiglio di vecchio non rompe mai la testa». La casa ingrandisce e i negozii moltiplicano; ai negozii ci starai tu quando io me n’andrò [105] ma alla casa chi ci penserà? Ricordati che «chi non cura sua magione non è un uomo di ragione»... Eppoi non basta avere la casa; è giusto il dire «innanzi il maritare abbi l’abitare»... ma «la bella gabbia non nutrisce l’uccello»... Capisci già dove voglio venire... Volta e rivolta «la casa e la moglie si godono più d’ogni cosa». Pigliala dunque... così me n’anderò più tranquillo... ma pigliala per bene. Ricordati «che chi mal si marita non esce mai di fatica»... sopra tutto non farmi la corbelleria di innamorare... «chi si marita per amore, di notte ha piacere e di giorno dolore». Bada poi a non lasciarti tentare dai fronzoli... «Donna specchiante è poco filante,» e non fa per casa nostra... Cercala del tuo stato e se un po’ allocca, meglio... «Abbi donna a te minore, se vuoi essere signore»... Quando l’avrai guardi la casa e nulla più... «Camera adorna e donna savia»... Tu poi tieni gli occhi aperti, ma non dimenticarti «chi è geloso è...» — e un colpo di catarro gl’impedì (forse per rispetto al pudico lettore) di continuare. Ma guarda bene «che restare in casa e mandar fuori la moglie semina roba e disonor raccoglie». Tienti a una cosa mezzana, nè bella nè brutta perchè «se è bella è vanitosa e se è brutta è fastidiosa...» Quanto al governarla lascio fare a te... Pensa però che «senza pastor non va la pecora». Io non ho mai avuta l’occasione di farne la prova, ma so che «donne, asini e noci vogliono le mani atroci». — E voleva dire di più, ma un ultimo e più violento urlo di tosse gli ruppe nella gola la paternale filastrocca.

[106]

Trenta dì dopo il poverello pronunciava l’ultimo suo proverbio; e sei mesi appresso Salomone chiedeva a un filatore di seta dei dintorni «riccuccio anzi che no» la signora Lorenzina ***... il cognome non monta; e scorso l’anno di lutto se la menava all’altare.

Il nome di Lorenzina era il solo diminutivo che portasse con sè la novella sposa; ma dopo tre giorni di matrimonio le tolse anche questo, e da allora in poi la chiamò Lorenza per tutta la vita. Da ciò si poteva facilmente arguire che la luna di miele dei due sposi aveva fornito rapidamente il suo corso.

La signora Lorenza, lo ripetiamo, non era nè bella, nè brutta, il suo volto non aveva difetti, ma pareva di legno; i suoi capelli erano folti e lunghi, ma sembravano di canape, i suoi occhi erano grandi, ma spenti, la sua taglia era regolare ma.... ahimè sembrava un rettangolo, infine il tipo proverbiale che il defunto suo suocero aveva sognato, poteva dirsi trovato.

Ma questo che importava?... se in cambio era buona, casta, casalinga e sinceramente pia, ottima madre e moglie, rassegnata?... Rassegnata fin troppo; rassegnata tanto che la si poteva credere stolta. Ma che volete?... La poverella aveva tale invincibile paura di suo marito che, appena questi alzasse la voce o aggrondasse un sopracciglio, avesse ella pure tutte le ragioni del mondo, non osava più fiatare, tanto era rassegnata, da scordare fino talvolta i suoi doveri di madre e la sua dignità di donna. Per questo il marito, dopo averla abbrutita, spregiavala, e i figli stessi che si ricordavano [107] d’aver spesso ricorso indarno alla sua protezione, e che l’avean trovata sempre impotente a difenderli, non la rispettavano. Soltanto Giusta, la terza figliuola, comprendeva le invisibili torture di quell’anima e l’adorava.

Noi non abbiamo che a parlare di tre dei suoi figli. Adolfo, quello stesso azzimato che vedemmo nella spezieria, Virginia la secondogenita e Giusta che vedremo tra poco. L’ultimo, battezzato solennemente col nome di Vittorio Emanuele non fece molto onore al suo regale omonimo e morì pochi mesi dopo in cuna.

Quando Adolfo ebbe dieci anni, fu il caso di metterlo in collegio. Allora eravamo nel colmo dell’impero, e le scuole ed i collegi erano appestati di tale infranciosamento che, senza condividere le antipatie di Salomone Arena, si poteva benissimo provar ripugnanza ad abbandonarvi un figliuolo.

Eppoi scuola sì, ma economica. Il padre perciò — giacchè la madre non era nemmen consultata — per conciliare l’uno e l’altro scopo, cioè economia e non francesi, pensava al seminario. Non già col proposito di fare del figliuolo un prete, giacchè la sottana, sebbene la rispettasse pel potere, eragli sospetta e uggiosa; ma nel disegno di fargli acquistare una educazione che Salomone chiamava «scelta» e gettarlo così munito di tutti i beni dell’intelletto nella palestra degli affari e dei guadagni.

Adolfo adunque entrò nel Seminario Maggiore di Genova e vi stette fino a 18 anni.

Quando ne uscì non sapeva nè il latino nè l’italiano, nè la storia sacra nè la profana, e [108] dell’ermeneutica non aveva ritenute altre lezioni fuor di quelle che interpretavano il Tarocco e il Faraone. In compenso s’impinzava di quanti romanzi e novelle potesse trafugare sotto il suo capezzale. Siccome però egli udiva continuamente tuonare dalla cattedra il maestro barbassoro contro il nascente romanticismo, ed egli era troppo grossolano per sentire René in Chateaubriand e Werther in Goethe, così tutto il nutrimento delle sue notti riducevasi alle sdolcinature dell’abate Chiari ed ai laidumi del Batacchi e del Casti, i quali gli accendevano nel sangue vampe di desiderii intollerabili e gli addottrinavano lo spirito, prima ancora di corrompere il corpo, in tutti quei vizii, dei quali la comunanza invigilata o violenta dei seminarii era, in tempi più corrotti dei nostri, facile scuola.

Buttato via il collare, suo primo pensiero fu di gettarsi a corpo perduto ne’ piaceri, dei quali aveva palpate le larve nei sogni irrequieti del dormitorio.

Chiese perciò al padre licenza e danaro per viaggiare e l’ottenne.

— Ma ad un patto — disse Salomone — non in Francia.

— No babbo!... l’Italia soltanto.

Il babbo forse non sapeva che anche nell’Italia d’allora ce ne era abbastanza per guastare un seminarista... fosse stato S. Luigi Gonzaga. Ma il sindaco cavaliere (allora aveva di già questa doppia qualifica) pensava che viaggiando il figlio si romperebbe alle scaltrezze della vita ed ai raggiri dei negozi.

Quale meraviglia invece e quale dispetto, [109] quando Adolfo, in capo a quattordici mesi, tornava carico di debiti, di vizi, di ignoranza, di superbia e di magagne!... Costretto allora dalla volontà del padre a restare in casa per riparare le piaghe sofferte, Adolfo divenne il zerbino o come suol dirsi oggi il leone del villaggio, e siccome in certe prodezze, i più stolti sono i più forti, così ebbe fortuna.

Lo vedevate anche nei giorni feriali passeggiare in scarpini verniciati in mezzo ai zoccoli risuonanti de’ contadini e mettersi tutto unto e profumato sulla porta delle stalle in compagnia di villane che non si lavavano mai.

Parlava un piemontese infarcito d’un italiano leccato ne’ suoi viaggi, ma tuttavia anco con quel gergo più barbaro di quanti barbari gerghi soldateschi e burocratici siano favellati in Italia, il nostro Ganimede riesciva a ingarbugliare la testa delle paesane ed a passare nell’accademia della spezieria del villaggio per un uomo di lettere.

La secondogenita, Virginia, era belloccia, tonda, lenta, egoista, indifferente, dispettosa coi fratelli e colla madre, contrita in faccia al padre, al quale riportava per giunta tutto quanto vedeva e sentiva.

Maltrattava gli animali e le piante, trapassava a colpi di spillo tutte le farfalle che poteva cogliere e dilettavasi a spargere nella camera di sua sorella Giusta — che ci pativa fino a piangerne — le foglie di abbossino che aveva divelte dalla siepe del giardino.

Ombra d’amore non era ancora passata su quell’anima, ma non crediate però che essa dormisse sul santo origliere dell’innocenza. [110] Libri non ne leggeva dacchè il convento ne l’aveva svogliata, ma nessuna avventura, per quanto scandalosa, di dieci miglia all’intorno erale ignota. Tutte le sue confidenti avevano doppia età della sua, il che, lo sappiano le madri, è il pericolo maggiore delle fanciulle. — Giusta era il fiore di quel deserto, la Venere Diana di quel crepuscolo.

XIV. GIUSTA.

Ci lasci il lettore tentare un abbozzo di questa figura, e tutto quello che non potremo dire noi stessi lo ritrovi nella sua fantasia e nel suo cuore. A sette anni, trascurando i primi dell’infanzia che furono tristi ed infermicci, Giusta era quella che chiamasi un diavoletto colle penne d’angelo. Il padre stesso, così poco espansivo e tanto rigido cogli altri di casa, l’idolatrava; egli non avrebbe mai creduto di poter avere da sua moglie un così bel cherubino. Direi quasi che si rabbonisse anche colla signora Lorenza, e certo il broncio stereotipo di Salomone venne a poco a poco levigandosi dal dì che Giusta fanciulletta cominciò a farfallare e folleggiare per la casa, empiendola delle sue grida argentine, delle sue canzoni melodiose, dei suoi trastulli, e del suo riso, ravvivando quella morta solitudine coi profumi della primavera e colorando quella tenebria coll’iride delle sue guance e [111] il raggio luminoso e perenne delle sue nere pupille.

Essa smentiva vittoriosamente il verso di Dante:

Ch’ogni erba si conosce per lo seme.

Ma venne anche per lei il giorno d’essere affidata alle Carmelite di Tortona, e quando essa s’involò, l’arcigna strega della monotonia tornò ad assidersi al focolare della sua casa.

Sua madre, staccandosi da lei, ebbe il coraggio di piangere anche in faccia al suo marito, e questi di sospirare.

A sedici anni, un anno dopo Virginia, uscì di convento, sapendo un po’ di tutti quei nonnulla che le monache sanno insegnare con quel colorito e quella intonazione tutta particolare onde li rendono noiosi e insopportabili durante gli anni della scuola, insufficienti e sterili nel resto della vita.

Giusta aveva imparato a far dei fiori, ma in luogo di gigli e di gerani la obbligavano a pungersi le dita per de’ fioracci senza significato, senza poesia e senza verità, i quali andavano ad ornare la testa d’una madonna di legno o la nicchia d’una santa raffagottata. Giusta sapeva stare al cembalo; ma non le lasciavano studiare che Sursum corda e Tantum ergo; Giusta ricamava; ma l’eterno tipo era un sonetto acrostico, le cui iniziali erano quasi sempre un cuore trafitto, una mitra da vescovo o un capello da cardinale; — e si disamorava di tutte queste cose.

Non vogliamo dire con ciò che Giusta fosse senza religione. La sua anima amorosa e semplicetta [112] sentiva Dio in tutto ciò che era bello, giusto, alto, sublime, ideale, e l’adorava. Alle pratiche della religione in cui l’avevano battezzata non s’atteneva superstiziosamente; molte però ne amava per la poetica espressione, tutte le rispettava. La preghiera e la carità erano le forme predilette e credute del suo culto; non la preghiera pubblicana e spettacolosa, informata ad una lingua morta e arcana, ma quella solitaria, spontanea, come le sgorgava dal cuore, come gliela dettava l’affetto e il bisogno di quell’ora; ma la carità segreta, modesta, incondizionata, illimitata per tutte le colpe penitenti, per tutte le virtù sventurate, per tutti i rimorsi sinceri; carità che non dispensa soltanto i soccorsi e i conforti del corpo, ma la parola, l’esempio, le lagrime consolatrici.

L’età, il sesso, l’educazione, l’ambiente non le permettevano di professare una religione filosofica, ma il sentimento le impediva d’avere una filosofia miscredente. In questo era donna e seguitava le aspirazioni ideali del suo cuore e ascoltava le voci che susurrava all’anima sua, la grande anima della natura, dai profondi spazj dell’infinito.

Ciascuno ha in sè l’eco d’un ideale che è il suo proprio Dio; tristo l’uomo che non l’intende; tristissima, orrida la donna... Reduce dal convento, Giusta non serbava più, della rosea, paffuta e indemoniata fanciullina, se non che il lampo fascinante dello sguardo, fattosi però più profondo e più mesto. I suoi bei capelli d’oro, senza aver perduto nulla della mollezza e del profumo nativo, s’erano infoscati, traendo [113] già più al castano che al biondo; le sue forme tornite e piene si erano assottigliate e quasi diremmo spiritualizzate; l’incarnato delle sue guance erasi mutato nel pallido splendore della conchiglia; il suo collo così morbido e ritondo tendeva ad allungarsi fin troppo ed a chinarsi sull’omero; le sue spalle diritte e slanciate cominciavano a curvarsi; da tutta la sua persona traspariva quell’aria di abbandono e di stanchezza che è segno quasi sempre o d’un segreto dolore, o di grandi prove, d’uno spirito eccessivamente sensitivo e proclive alla contemplazione ed ai sogni. Soltanto la voce serbava il timbro argentino e soave dell’età infantile quasi promessa che l’anima sua custodiva in tutto il candore della prima innocenza.

Le contadine le quali non vedevano più il colore di melograno sulle sua fossette, dicevano che Giusta ingrandendo aveva perduto in bellezza; ma le contadine si ingannavano; Giusta non aveva fatto che salire di carne a spirito come la Beatrice del Poeta, e la sua bellezza meno pittoresca era divenuta più celestiale.

Ci si chiederà il perchè di questo improvviso mutamento, e noi lo daremo.

Nessun ricordo resta più scolpito nella mente, dei ricordi dell’infanzia, e per dire più esatto, o le immagini passano via fuggenti e svaniscono e nessuno sforzo vale a richiamarle nell’età più adulta; o si soffermano e s’imprimono, e nessuna potenza nè di tempo nè di cose può cancellarle mai più. Tutto ciò che la prima età riceve, assorbe e trasforma in sangue; [114] più tardi in ogni fibra del cuore, in ogni figura del pensiero trovate un atomo del primo nutrimento.

Giusta, due cose rammentava della sua infanzia; ma quelle due rimembranze, giunti gli anni della riflessione — che ahimè! son pur quelli del dolore, — avvilupparono di quel tenue velo di melanconia l’anima sua, eterizzarono le forme del suo corpo e s’impressero incancellabili in tutta la sua vita.

Bambina di sei anni, ricordavasi che in una notte gelata d’inverno, mentre la neve cadeva a fiocchi per la contrada e il vento sibilava alle imposte, sua madre, discinta, pallida, tremante, era venuta a rifugiarsi nel lettuccio ov’essa dormiva per fuggire alle percosse di suo padre che furente ancora minacciava alla porta.

E rammentavasi pure che allora rizzandosi sul letto e coprendo la madre della sua persona, fatta gigante nell’ombra come l’angelo della punizione, aveva gridato:

— Cattivo babbo..... il Signore ti farà morire!...

E la madre chiuderle prestamente la bocca dicendole che una buona figliuola non deve mai invocare la morte del proprio padre.

E pochi anni dopo ricordavasi d’aver veduto in una delle inondazioni del fiume un vecchio ottuagenario e un giovinetto di quindici anni lanciarsi perdutamente entro le furenti corsie per salvare la vita e le masserizie di venti povere famiglie.

E questi due ricordi insieme disposati erano ingranditi coll’età nella sua mente e s’erano [115] impossessati del suo spirito e, come il loto mitologico del sacro fiume indiano, erano un giorno sbocciati nel suo cuore sotto la forma di tre fiori soavi, di tre sentimenti celesti che gli angioli istessi le avrebbero invidiati. Vogliamo dire:

Adorazione per sua madre,

Venerazione per quel vecchio,

Amore per quel giovinetto.

Ora chi fosse la madre sua lo sappiamo, e quel giovinetto era Giorgio e quel vecchio il padre di lui.

Reduce fra i suoi, la madre, quasi avvertita da quell’arcano istinto, che nella donna è più chiaroveggente della ragione, considerò quella mestizia come un omaggio alla sua, come un lutto segreto che la figlia portasse pei dolori a cui era condannata, e l’idolatrò ancora più s’era possibile.

Il padre se n’accorse pure, ma pensò dapprima, e con dispetto, potesse essere frutto dell’educazione ascetica del convento. Tuttavia com’egli era uno di quei volgari interpretatori della donna, che la bellezza giudicano alla stregua della carnale pienezza delle forme e credono spirito la immodestia e civetteria, così dubitava che quell’esile e quasi impalpabile creatura non potesse più pretendere ai ricchi partiti, ai quali parevano chiamarla le gote paffute e il riso procelloso dei suoi primi anni.

Immaginò pertanto, come tutti i padri della sua specie, che le distrazioni e i sollazzi fugherebbero quelle nebbie del chiostro e la fece viaggiare, ballare, divertirsi; le comperò vesti, ornamenti, trastulli, e fidandosi al patrocinio [116] di Maria Teresa, nutricò persino in cuore la speranza di presentarla a corte. Ma a Torino gli fu fatto conoscere che il suo cavalierato era troppo di fresca data; e Salomone, senza rinunciarvi del tutto, aggiornò i suoi aristocratici progetti.

Giusta seguitò il padre, obbediente ma svogliata. Le nuove città, le diverse scene della natura la stupivano, l’ammiravano, è vero, ma nessuno dei piaceri a cui era iniziata potè appannare il candore dell’anima sua, o macchiare l’alabastro placido e solenne della sua melanconia.

Nessuno dei fiori che suo padre spandeva sul di lei cammino vinceva l’acre profumo del suo fior di memoria. — Diamine... — masticava qualche volta il sindaco cavaliere — Che cosa può avere Giusta?... che sia innamorata? sarebbe un brutto contrattempo pei miei progetti.... — poi riflettendoci — Baje! È impossibile! Chi mai dei tangheri del villaggio può aspirare fino a.... lei?

Il padre rasentava la verità; Giusta era innamorata, ma nessuno, nemmeno lei, avrebbe saputo dire di chi.

Spesse volte passando innanzi alla casa dei Santafiori aveva sentito il suo cuore battere a rintocchi più veloci; ma, sebbene gustasse un certo gaudio a quella sensazione, non sapeva spiegarla.

Così altra fiata, se andando alla messa le accadeva d’incontrare per la via il giovine dei suoi ricordi, era facile sorprendere sul suo volto un lampo di rossore; ma i curiosi, se pur lo notavano, erano però incapaci di interpretarlo e lo confondevano gli sciocchi con un colpo di sole, i maligni con un effetto di belletto.

[117]

Giusta era pietosa e caritatevole. Sebbene di rado padrona della più piccola somma di denaro, tuttavia o col suo tenue peculio, o con qualche avanzo del suo guardaroba, o col borsellino della madre, trovava sempre modo di vestire qualche bambino ignudo o di portare un soccorso qualunque a un ammalato.

Sebbene il cavaliere avesse tutto il giorno la voce in aria per perorare la economia o per gridare: — che le limosine fatte così di soppiatto, e senza che nessuno potesse ringraziarvi, a certi fannulloni accidiosi e ingrati, erano uno sciupio inutile coi danni e le beffe per giunta, — tuttavia chiudeva qualche volta — non sempre — un occhio sulla modesta liberalità della figliuola, prima perchè pensava che era dispensato dall’usarla egli stesso, poscia per amore di quella popolarità che lo vellicava tanto quand’era gratuita. Inoltre, stimando Giusta troppo alto locata nel villaggio perchè sospettasse alcuno tanto ardito di metterle un’occhiata addosso, le dava spesso libertà di fare lunghe passeggiate o nel villaggio o nei cascinali e nelle masserie dei dintorni.

XV. L’INCONTRO.

Quando Giusta entrava nei tugurii le vecchie già impotenti si sforzavano ad alzarsi per offerirle la scranna su cui sedevano; le madri le davano a baciare i loro bambini come li [118] porgessero al tocco d’una santa: il paese tutto era pieno de’ racconti delle sue beneficenze e molta parte della gratitudine per la figlia riverberava sul padre che modestamente se la pigliava.

Un pomeriggio d’autunno Giusta era uscita per trovare una povera ammalata che dimorava in una casipola assai lontana dal villaggio, sola sola con due figliuoletti, giacchè il marito, che fidandosi a una miopia non menatagli buona erasi ammogliato a vent’anni, aveva toccata la coscrizione ed era soldato nei dragoni del Re.

La fanciulla trovò l’inferma assai aggravata; durante la sua visita, essa era già caduta due volte in deliquio. Però non aveva cuore di lasciarla sola fino a che non si fosse riavuta, o il medico, che s’aspettava, non fosse arrivato. Ma il sole era tramontato, l’Ave Maria era suonata e il medico non si vedeva ancora. Giusta era in un affanno fortissimo pensando che i suoi l’aspetterebbero e che avrebbe dovuto traversare la campagna di notte. Pure decise di aspettare ancora e prodigò intanto le sue cure all’inferma. Questa sembrava realmente rinfrancata; per quella notte ogni pericolo poteva dirsi svanito. D’altronde essa pregava la sua giovane benefattrice «a ritornare a casa, a non dare quel tormento di non saper dove fosse alla sua buona madre» e Giusta cedendo a tante ragioni decise di partire. Lasciò qualche soldo alla donna e un regaluccio per uno ai due bimbi, e rincorati tutti con quella sua voce che pareva involata alle arpe del cielo, abbandonò la capanna.

La notte era scesa più fitta e buja dell’usato; [119] le stelle andavano mano mano sparendo entro padiglioni nerissimi di nubi, e un soffio umido che ventava dall’argine del fiume annunziava non lontana la pioggia. Giusta tuttavia, sollevato con una mano il lembo della sua lunga veste e coll’altra allontanando i tralci delle vigne e i rami degli olmi che le imprunavano il cammino, prese senza timore la via di casa sua.

Camminava così da circa cinque minuti, quando un lungo filare d’alberi che non conosceva e che non aveva incontrato nella sua passeggiata di giorno le si parò improvvisamente d’innanzi.... S’arrestò; riguardò da ogni lato; fece per tornare addietro e non potè orientarsi; stette un istante pensando, poi disse a voce alta:

— Sono perduta!...

— Scusate, signora — rispose un uomo che era apparso all’improvviso dietro di lei — io posso insegnarvi la strada!....

Giusta s’era voltata rattamente, sorpresa ma non spaventata.

— Voi?... e chi siete voi?... — fece la intrepida fanciulla rizzandosi di tutta la maestà della sua persona.

— Mi chiamo Giorgio Santafiori — rispose rispettosamente l’interrogato.

— Giorgio!... — esclamò un po’ troppo vivacemente la giovinetta, lasciando al suo interlocutore una lunga occhiata che l’avviluppò come la luce d’un lampo.

— Sissignora... — balbettò Giorgio — sono l’affittaiolo della Calandrina.

— Oh vi conosco....

— Mi conoscete?... — fece Giorgio stupito.

[120]

— Di nome.... voi e vostro padre.... — soggiunse la fanciulla.

— Allora permettete che v’accompagni sul buon cammino.... — disse Giorgio incoraggito.

— Accetto!... — rispose la fanciulla dopo avere esitato un impercettibile momento. — Volete precedermi signor Giorgio?...

Questi si portò alcuni passi davanti alla fanciulla, e senza mai dire una parola se non per avvertirla di evitare una pozza o per aiutarla a passare un fossato, la ridusse fino al portone di casa sua.

— Io lo sapeva, signor Giorgio, che voi eravate molto buono; ma ho avuto il piacere di provarlo io stessa. Lasciate che io ve ne ringrazii con tutto il mio cuore.... — fece la bella giovinetta porgendo alla sua guida una mano affilata e candida come quella d’una fata.

— Oh! di che mai?... — rispose Giorgio sfiorandola appena colla punta delle sue dita tremanti.

E i due giovani si dissero addio e si separarono, portando ciascuno nel cuore questo sentimento, questo voto, questa speranza: «io l’amo».

S’amavano e non se lo dissero ancora.

XVI. EPISODI.

I Santafiori erano da parecchi mesi nel villaggio di X, intenti a coltivare la Calandrina, passando pressochè le intere giornate ai campi, [121] Giorgio ai cavalli ed alle mandre, Battista alle vigne, alle semine ed ai mercati, mentre le donne non ristavano un’ora, o dai lavori, o dal casalingo maneggio, e Balilla non intralasciava mariuoleria per deludere que’ due uggiosi nemici di tutte le infanzie, l’abbaco, e l’abbicì.

L’unica distrazione che restasse alla patriarcale famigliuola era, raccogliersi intorno al domestico focolare ad ascoltare le venturose peripezie di mare e di terra che Battista aveva traversate, ch’egli sapeva colorire d’un linguaggio semplice e vivace, e accompagnare con una morale severa, e con amorosi consigli. Ci siamo sbagliati e «torniamo indietro un passo» anche noi come accadeva talvolta a Battista nel narrare la sua storia.

Non era quello il solo sollievo che i Santafiori prelevassero sopra una vita laboriosa ed austera; essi ne conoscevano un altro e ben più gradito ed invidiabile: la beneficenza. Era codesto il carattere e diremo quasi l’arma gentilizia di quella casa sulla quale Michele soltanto protendeva l’ombra del suo egoismo e della sua poltroneria.

La beneficenza dentro quelle mura o, per dir meglio, dentro quei cuori era la sola e vera religione. Il lettore sa che il primo atto di Battista entrando nel villaggio era stato un atto di carità. Ma quello non era che la continuazione di molti benefizj passati, il principio di molti avvenire. E v’era chi ne abusava, perchè nessuna cosa è più facilmente usufruttata dal male che il bene, specialmente se questo non è nè studiato nè guardingo, e gli [122] onesti sono la prima forza dei malvagi. A mo’ d’esempio, i contadini suoi, che avevano in pochi giorni subodorato l’umore o l’amore del padrone, una domenica in cui s’eran raccolti ad aggiustar conti in cui Battista ci rimetteva quasi sempre di saccoccia, tirate le somme e chiuso il bilancio, presero a dirgli «che la novità ch’egli introduceva nella lavorazione de’ campi li costringeva a una doppia fatica, che la lor paga non era adeguata al lavoro, che avevano la madre vecchia, i figliuoli teneri, molti debiti, molte miserie e così via» e tanto fecero, pregarono e piagnucolarono che Battista conchiuse:

— Ebbene vi crescerò dieci soldi al giorno per ciascheduno; ma ad un patto...

— Anche cento, padrone — rispose il più parlatore e disinvolto della deputazione.

— Che i dieci soldi che vi do di più, li metterete in una cassa comune, che servirà ad aiutarvi mutuamente, a pagarvi le medicine nelle malattie ed a far fronte alle disgrazie imprevedute. Vi sceglierete un amministratore di fiducia, per esempio il Marco, il quale distribuirà dei soccorsi secondo i bisogni.

I contadini che non capivano il beneficio della mutua associazione, e che erano, come al solito, tigne, avrebbero amato meglio mettersi in tasca i dieci soldi; ma poichè pareva quasi impossibile ad averli, si contentarono per allora anche della proposta di Ballista, e...

— Così sia — disse Marco l’arringatore, — che siate benedetto; il Signore vi aiuterà.

Come noi non scriviamo solo un romanzo, ma una storia, dobbiamo anche registrare che [123] i contadini da quel giorno si fecero uno scrupoloso dovere di lavorare meno di prima e di truffare al padrone i dieci soldi quotidiani ch’egli aveva loro bonariamente accordati.

Già da molti giorni il fiume ingrossava e rodeva. — Il nemico s’avanza — dicevano i guardia-rive — messer Po ci minaccia una delle sue passeggiate... Chi ha roba la salvi — e attenti ai bestiami.

Un acquazzone, scatenatosi in una notte di dicembre, fu decisivo. Il fiume s’ingojò la riva, superò l’argine e dilagò, travolgendo e schiantando tutto quanto s’opponeva alla sua corsa per la circostante campagna. Per fortuna che i ripuari erano all’erta e che tutto il più prezioso, granaglie e mandre, era trasportato lontano e al sicuro. Le case propinque alla riva erano le più esposte all’invasione delle acque e i pigri che vi si fossero addormentati sarebbero stati inevitabilmente perduti se un uomo non avesse vegliato per loro.

Battista aveva coi venti e coll’acqua la famigliarità d’un marinaio. Egli aveva preveduto la pioggia; e vedutala capi che l’innondazione sovrastava inevitabile.

— Svegliati, Giorgio — disse a suo figlio — vieni con me al fiume, vi sarà forse qualche cosa da fare; prenditi delle corde e un’ascia.

E giunti presso agli argini si misero a picchiare alle porte delle capanne seminate qua e là, per avvertire gli abitatori che lo straripamento era imminente e che non indugiassero a mettersi in salvo. Chi s’alzò, chi seguì il consiglio, chi voltò il fianco borbottando «che non importava e che la Madonna li avrebbe [124] aiutati». Eran di quella misera gente, cui il morire non caleva più nulla, o ignoranti abbrutiti, cui la stolta e iniqua dottrina del quietismo cattolico aveva appreso l’ozio e la infingarda aspettazione del paradiso, sotto pretesto che i beni della vita futura erano tanto più certi quanto più deliberato era il distacco da quelli della presente.

Battista non s’era acquetato alla costoro risposta, e s’era già accinto ad abbattere la porta per trarli di là se fosse d’uopo anche a forza; ma intanto le acque erano montate e in meno che non si dice avevano valicato i primi terreni, abbattute le prime case, e persino avvolti nella correntia, le due sentinelle notturne, padre e figlio Santafiori. Eran però nuotatori entrambi invincibili, e Battista malgrado i suoi ottant’anni non aveva ancora perduto il diritto al soprannome di Murena.

Nel punto istesso che l’acqua li soperchiava avevan visto sparire nei gorghi anche la capanna cui avevano bussato e compresero che non v’era un minuto da perdere. Si slanciarono a nuoto nella direzione del pericolo e nel fosco della notte scorsero galleggiare poi disparire umane forme. Affrettarono il corso; e a forza di petto e di braccia trasportarono i sommersi verso le parti più alte dove l’acqua non giungeva al ginocchio. Altri pietosi davano altri soccorsi ai salvati. E di nuovo Battista e Giorgio tornarono all’opera, e tutto quanto potè afferrare il loro braccio fu salvo.

Passato il flagello, i nomi di Battista e di Giorgio volarono per tutti i dintorni e fin sulle gazzette, ma in molti petti non destarono che [125] un’invida ammirazione o, peggio ancora, un odio implacabile. Pochi si commossero e sinceramente ammirarono: fra quei pochi la gentile fantasia di una fanciulla a noi nota. Giusta Arena doveva ordire su quei nomi e quell’opera il suo primo, il suo unico romanzo d’amore.

Il più inviperito di tutti invece, e lo si indovina, era Salomone Arena. Egli vedeva nella popolarità che Battista veniva acquistando una concorrenza fastidiosa alla sua, e non tralasciava più sordamente che gli era possibile di limitare per di sotto la nuova reputazione che veniva sorgendo in paese.

L’izza di Salomone contro Battista originò dalla Calandrina, una magnifica tenuta di oltre 1000 iugeri di terreno, che detratta ogni spesa fruttava al Santafiori (il quale però la coltivava senza sparagno) le sue quattromila lire nette, somma sulla quale l’affittaiuolo doveva pagare la pensione a Michele, esercitare la beneficenza e vivere. L’Arena però aveva contato, pagando d’affitto solo dodicimila lire, lavorandola a economia e a strascico, mettendoci dentro metà dei contadini delle altre sue campagne, e strozzando il salario all’altra metà, di cavarne almeno almeno le sue diecimila lirette suonanti. Gli capitò fra i piedi Battista Santafiori che aveva dei grilli d’onestà, e che credette di poter offerire quindici mila lire, onde gli fu deliberata. Inde irae. Il sindaco cavaliere non perdonò più al filantropo affittuale di avergli rubato il boccone dal piatto, e se la tenne legata al dito per tutta la vita.

Intanto che Battista faceva il bene, il sinedrio della spezieria continuava a dire e seminare [126] il male. Il piccolo Frustadenti era il più viperino; veniva seconda sua moglie, gli altri in coda. Il povero Romeo si sforzava è vero di introdurre il suo mitigante intercalare «salvo gli errori del popolo» ma gli era come soffiare aria fresca sopra un cauterio. Dietro la tela potevasi scorgere l’ombra di Salomone Arena che maneggiava i fili e suggeriva, non visto, le parole.

Quando si seppe dell’associazione che Battista aveva tentato iniziare fra i suoi lavoranti, ci fu chi disse «che egli capitalizzava il sudore dei poveri»; e quando si seppe il regalo che aveva mandato ai poveri della terra, e lo si vide cogliere i baciamani del popolino a ogni tratto di strada; — «La farina del diavolo va in crusca — gridava il Frustadenti. — Fa la carità e non paga i debiti, fa la carità e non va a messa, fa la carità ed è nemico della religione e dei ministri, fa la carità e medita trame incendiarie contro il Sovrano, fa la carità coram populo e in privato nega un soldo alla sua parocchia ed alla costruzione del suo tempio».

È infatti a sapersi che una volta il curato don Spiridione, che era il factotum della pieve giacchè l’arciprete Don Fulgenzio schivava i fastidii, presentatosi in casa Santafiori per chiedere l’elemosina per la fabbrica della Chiesa, vi fu accolto con queste parole:

— Io rispetto assai la vostra chiesa, ma non ho denari per essa. Se potessi adoprarmi a un po’ di bene metterei la mia offerta direttamente in mano ai poveri e senza distinzione di sottana, di colore o di mestiere. A quel che [127] pare voi siete comodo; però se un giorno conosceste il bisogno fate capitale su di me. Ma la vostra chiesa, scusatemi, non ha bisogno di nulla, e trovo che al villaggio farebbe assai meglio un ospedale od una scuola. Che i fedeli amino avere un luogo decente in cui raccogliersi a pregare lo comprendo; che lo vogliano trasmutare in un museo di belle arti, questo non mi entra, e s’anco fossi credente non avrei tanta devozione per ciò. A me pare, il luogo dove si va a pensare a Dio debba essere austero. Voi altri a forza di riempire le chiese d’immagini vi siete messi ad adorare queste in luogo di Dio e siete caduti in una idolatria forse peggiore di quella che Cristo ha rovesciata. Queste cose le dico a voi che siete sacerdote e che dovete avere salda fede, nè potete esserne scandolezzato, fuori non mi udrete dire un motto su questi argomenti. Nella mia famiglia ognuno crede a quel Dio che la coscienza rivela. Mia moglie è protestante e legge la Bibbia, mia figlia è cattolica e credo sia vostra penitente; Giorgio dubita e pensa, e Balilla sarà quel che vorrà. Io fui cattolico per l’acqua del battesimo, ma capirete che nel fare il giro del mondo ho veduto troppe religioni, troppi mercati, e troppi mercanti, perchè io possa più credere a nessuno. Ciò vi farà orrore, caro signor curato, ma supponete di aver udito una confessione generale. Capirete però che a ottant’anni, assolto o no, non sarei più a tempo nemmeno a pentirmi... Oh vedo che la zuppa fuma; volete sedervi con me, signor curato?... divideremo da fratelli.

Il curato esitò; era incerto se pronunziare [128] la scomunica maggiore contro il dannato o accettare la zuppa; dopo riflessione, e odorato il profumo appetitoso che scappava dalla cucina, opinò per la zuppa e le fece onore.

Don Spiridione però aveva bevuto nel secchio della Samaritana, ma non le aveva promesso il regno dei Cieli. Appena uscito dai Santafiori, corse come un procaccino a propalare per tutto il paese il rifiuto di Battista e l’eresiaco discorso. Ed è superfluo il dire che il reverendo, riscaldato un poco dal nebiolo che l’ospite generoso avea sturacciato per lui, esagerò e ingrossò fino a dire che «in China aveva messi alla tortura dei padri gesuiti, e che meditava la propaganda d’un nuovo scisma ancora più idolatra di quello di Fozio e di Melantone».

La terra a tale annunzio si sommosse; le donnolette sgambettavano alla chiesa per mettersi in grazia di Dio e scongiurare il demonio; il povero Don Fulgenzio ebbe il rompicapo di esporre il Santissimo; un attruppamento di villani si formò dinanzi alla casa di Battista, urlando all’eretico, scaraventando ciottoli nei vetri e minacciando sfondare il portone. L’assemblea di Romeo s’era dichiarata in seduta permanente, e il sindaco si sentì costretto di uscire dal suo studiato riserbo e di parlare all’orecchio del maresciallo Malagana.

E pare che il resultato del dialogo fosse stato codesto: «che l’arma benemerita avrebbe fatto una visita all’abitazione del nominato Battista Santafiori, sospetto di segreta corrispondenza coi framassoni e protestanti». Questa [129] misura non aveva in quei tempi bisogno di giustificazione veruna; il beneplacito dei carabinieri era legge, e il buon governo, cioè la polizia, non aveva conti da rendere a nessun tribunale, tranne che ai governatori militari. La macchia d’eresia d’altronde era ragione più che legittima per essere tradotto issofatto in prigione; figuratevi poi una semplice visita domiciliare.

La perquisizione, per dirla col gergo poliziesco, fu consumata a mezzanotte con la ben nota delicatezza e cortesia che suole esser messa in siffatte imprese, scombussolando naturalmente tutta la casa, svegliando brutalmente le donne e non trovando, come d’ordinario, nulla.

Però Battista fu astretto a seguitare la benemerita, condotto il dì appresso dal governatore della provincia, e dopo quindici giorni di andirivieni, di minacce e di vessazioni, rimandato a casa, sottoposto alla speciale sorveglianza del buon governo e col precetto sulle spalle. Il vecchio le aveva è vero scrollate; la famiglia stessa n’era rimasta più stordita che spaventata, e la sola Livia, credente e timida, n’avea tocchi più giorni di patema.

Giorgio invece mandava fiamme e giurava di prendere pel collarino il prete scellerato. Battista l’udì e lo calmò così:

— Il torto è mio che non avrei dovuto contare certe cose. Però quando vuoi dividere la metà della tua zuppa con alcuno, non esitare mai, foss’anco un prete.

Passata codesta burrasca ne capitò un’altra.

[130]

XVII. LA BENEDIZIONE DEL TEMPO.

In sul cadere di una caldissima giornata di luglio, un temporale accumulavasi sopra la nostra terricciuola. Udivasi da lungi il brontolar cupo del tuono, due nuvoloni da tramontana, color piombo, montavano insieme dall’orizzonte finchè incontratisi non formarono che una sola e nera massa di vapore, l’aria era afosa e pesante, le rondini radevano il suolo coll’ala, le cavalle stupite tendevano la testa ad odorar l’acre profumo dei fiori e dei cespugli; e nembi d’insetti scendevano nelle più basse regioni dell’aria involandosi al freddo che li incalzava nell’alto.

In meno di un’ora il temporale sarebbe scoppiato nel paese. I mietitori lasciavano i solchi e correvano a salti verso le case; le massaie superstiziose spiccavano dalla parete il ramoscello d’olivo pasquale, e ne bruciavano la fronda miracolosa in faccia al nembo, per scongiurarlo.

Oltre agli scongiuri particolari, di casa in casa, c’erano quelli generali che faceva la chiesa e de’ quali era affidata la direzione e la responsabilità al curato don Spiridione, la cui riputazione di invincibile esorcizzatore correva per miglia e miglia all’ingiro e gli fruttava non iscarso frutto di decime, di privilegi e di rispetto.

[131]

Appena il turbine s’annunziava, egli aveva dovere di mandar tosto il campanaro a dar di picchio nella campana maggiore, la quale doveva continuare il lugubre rintocco fino a che la collera del cielo non fosse placata. Intanto egli doveva uscire sotto l’atrio della chiesa colla miracolosa reliquia che conteneva un pezzo della greppia di Betlemme e con essa trinciar crocioni per aria, interpolare le litanie a mistiche parole ch’egli solo sapea, e costringere i demoni che ululavano nell’aria a cedere il campo.

Il lettore ne avrà vedute o udite narrare molte di codeste scene; però il più mirabile si era che don Spiridione non doveva già ricacciare gli spiriti maligni nelle loro sedi infernali, ma confinarli in qualche prossima terra; perchè potessero a loro agio satisfare sul campo del vicino la loro rabbia devastatrice. Caina carità del prossimo!

La campana adunque martellava; don Spiridione in stola e cotta, con gli occhi sbarrati fuori dell’orbita, colla bocca bavosa, con orribili contrazioni di labbra e di vene, agitando a manca ed a dritta la taumaturga reliquia, battagliava già da oltre mezz’ora contro il temporale, ma questi faceva orecchio di mercante, se n’infischiava degli esorcismi e si avanzava. In breve la nube scrosciò, s’aperse, e lasciò cadere proprio a perpendicolo sulla campagna di S... una grandine così fitta e così grossa che poteva proprio ritenersi per infernale. Cascò egualmente sui palazzotti e sulle casipole, e percosse, senza un miccino di rispetto per nostro Signore, fin le invetriate della sua [132] chiesa. E vi fu anche il complemento del fulmine, il quale attratto dalla cima maggiore del campanile e trovata una via conduttrice nelle corde delle campane, colpì il misero sacristano nel bel mezzo del corpo e lo incenerì.

Al saettar della folgore, Spiridione, perduta ogni fede nella greppia, fuggì a gambe levate in stola com’era, e lasciò sole le sue pecorelle nel cimento col cielo.

Ma all’apparir dell’arco baleno il miserando caso del campanaro fu noto; il campanile apparve scimato, i colti falcidiati e «tutto perchè il curato esorcizzatore avea abbandonato il suo posto». L’ira popolare era in bollore: un altro temporale ben più fiero del primo sovrastava al male avventurato Spiridione. Il contadiname raccoltosi in folla sulla piazza cominciò a sbraitare che se la grandine era caduta era colpa del prete; che se il sagrestano era ucciso, era perchè il prete non sapeva più maneggiare la reliquia, che doveva essere in disgrazia di Dio e forse d’intesa con Satana in persona.

— Bisogna scacciarlo — gridava uno.

— Bisogna dargli fuoco alla casa — esclamava un secondo.

— È lui stesso che la deve pagare — urlava un terzo brandendo un enorme bastone.

E l’atto fu interpretato, sancito ed eseguito. La folla, più aizzata dalla sordida rabbia pel danno patito che briaca di un superstizioso terrore almeno sincero, si scaraventò sulla casa del curato, in un attimo fè balzare le sbarre, si precipitò dentro, cercò, frugò, di su, di giù, [133] di qua, di là per tutte le stanze, per tutte le tane della casa: nulla. Il prete per orti e per vigneti era scampato.

Dove?...

Non ci vuol molto a capirla: nella casa di Battista.

E la capirono subito anche i villani. E allora il fiotto, come governato da un vento opposto, via furiosamente verso la casa di Santafiori.

— Ah? — diceva ii caporione della turba — ah! il signor curato si rifugia in casa dell’eretico.... È il momento di fare un falò di tutti due.

E s’apprestavano ad abbattere anche quella seconda porta, quando il portello si aprì e Battista si presentò sulla soglia.

— Morte a don Spiridione — morte all’indemoniato!... Siamo stufi di stregoni nel paese.

— Il curato non l’avrete se non passando sul mio corpo — fece il vecchio con voce ferma e secca, fissando il suo occhio calmo e profondo sopra i suoi assedianti, i quali s’arrestarono compresi forse da un duplice sentimento di paura e di venerazione. — Il curato si è ricoverato in casa mia; voi non potete pretendere ch’io tradisca il dovere d’asilo e che commetta la viltà di consegnarvelo. — Egli è per me più colpevole che per voi stessi perchè vi ha ingannati sopra una virtù che non poteva avere. Ma voi siete ancora più colpevoli di lui che l’avete incoraggiato ad ingannarvi e minacciandolo per giunta se nol faceva! Fate senno, miei cari. Credete forse che Colui che invia il sole e la tempesta, che comanda a [134] quei due grandi mondi che nessuno conoscerà mai per intero, il cielo e l’oceano, credete che indietreggi perchè un curato nel fondo d’una campagna gli avrà insolentemente mostrato un pezzo di legno, o fatte le fiche con un cencio creduto miracoloso? Dite su: se mostraste i vostri Agnus Dei all’esattore del re, quando viene per portarvi via l’ultima pentola o l’ultimo scudo, credete forse ch’egli si arresterebbe? E volete che Dio sia men loico d’un gabellotto?... E che faceva don Spiridione? Comandava alla gragnuola di cadere nei campi del vicino a devastare i frutti del prossimo vostro. Professate la legge evangelica «non fate ad altri quello che non vorreste fatto a voi stesso»; e la osservate così? Vergogna! Se la grandine è caduta è la sua stagione.... è un danno, lo so, ed io ne piango per me, e pei poverelli che l’avranno sofferta; ma se c’è alcuno che se la possa prendere coll’elettricità, coi venti, o colla pioggia che si congela prima di toccare la terra, si faccia avanti. Il povero campanaro è morto ed è una grossa disgrazia; ma chi vi ha ficcato in testa che sbatacchiando una campana, che è fatta credo per chiamarvi in chiesa, il temporale scappi via?

«C’è chi pensa invece che anche lo scampanellìo ecciti lo scoppio dell’elettricità, ma non è ben certo.... Ad ogni modo sapete quel che è successo? È successo che l’elettrico delle nubi ha trovato fra il suolo e sè stesso la vetta del campanile ed ha esploso là piuttosto che altrove; così avrebbe fatto sopra un albero se fosse stato vicino e più alto. Son leggi naturali che nessuno può mutare, miei figliuoli. Siate [135] ragionevoli. O che il curato, se avesse potuto, non avrebbe volentieri cacciato il temporale? Non ci aveva egli tutto a guadagnare e nulla a perdere? Oggi che ha fallito non ha forse compromessa la riputazione del mestiere? Credete a me; se avete fede nella religione non adopratela mai contro le leggi della natura, che son le leggi di Dio».

Fosse la voce, fosse l’aspetto, fossero le buone ragioni del discorso, o che la prima ira fosse svampata, o che i ricordi delle buone azioni di Battista ripigliassero il sopravvento, il fatto sta che quella gente, mezzo convinta e mezzo commossa, bassò la testa, mise la coda fra le gambe, come il branco di segugi di cui si parla nei Promessi Sposi, e si ritirò di là borbottando più cose, ma concludendo «che Battista aveva ragione, e che il curato era un furfante lo stesso».

V’è, l’abbiamo osservato più volte, maggior rettitudine e generosità nelle moltitudini che negli individui. La coscienza collettiva, come oggi suol dirsi, è migliore che l’individuale, e mentre la storia dell’umanità illumina la marcia trionfale del progresso e della civiltà, la storia degli individui si offusca ogni tratto colle turpezze della materia e colle rabbie cruenti dell’egoismo.

[136]

XVIII. GIORGIO.

Non v’è mai capitato, lettor mio, d’avere un lepido nonno; o il nonno non vi ha mai contato un epigramma famoso a’ suoi tempi, proibito dall’indice e dal codice e che non era prudente il ripetere se non in brigata d’amici e fra quattro mura? Se sì, vi ricorderete pure questi sei versi, che per essere sbagliati non son meno arguti:

L’altissimo di lassù

Ci manda la tempesta;

L’altissimo di quaggiù

Ci toglie quel che resta.

E in mezzo a due altissimi

Noi siamo poverissimi.

Ora questo epigramma dev’essere stato fatto apposta da qualche popolesco Giovenale per la fame del 1816; che se no, le si potrà a tutta ragione appioppare. Infatti non si era mai veduta più stretta congiura fra il regno del Cielo e quello della terra, per rendere canino e intollerabile un flagello che forse con una pioggia di più e un editto regio di meno si sarebbe potuto cansare. Le vittime avean un bel studiarsi coi Tridui per muovere a compassione l’Altissimo di lassù, e colle petizioni l’altissimo di quaggiù, fiato sciupato. I due Altissimi facevano il sordo e la carestia pigliavasene acconto anche sul 1817.

[137]

E, fuor di scherzo, fu una batosta seria. Il villaggio di S.... non andò naturalmente illeso dalla comune sventura, nè mancò alle processioni ed alle novene, ma per esso la disgrazia fu proporzionalmente minore, perocchè sebbene sbattuto dalla grandine, e tempo prima dell’alluvione, col fertile suolo e copiose acque avea potuto neutralizzare la causa prima del flagello: la siccità. Se adunque gridavasi a poche migliaia d’intorno: «Pane e farina» i ripuari del Po potevano per quell’anno essere chiamati i granai dello Stato.

Però il cuore generoso di Battista sentì subitamente quale ufficio s’aspettasse a un onesto uomo in mezzo alla sventura pubblica, così come il cuore nero e sozzo di Salomone Arena aveagli rivelato qual vantaggio potesse tirarne per sè e per la sua fortuna.

E mentre questi otteneva dalla regina Maria Teresa libertà piena di vendere il suo grano come voleva e impunità assoluta delle leggi, Battista faceva annunziare sui mercati ch’egli poteva cedere 500 moggia di cereali al prezzo corrente, apriva la sua porta a quanti vi picchiavano per un tozzo di pane, e limitava ancora più il suo desinare. E nessuno in casa si lagnava se spariva di giorno in giorno qualche pietanza e il desco andava assottigliandosi; tutti erano allevati a quella scuola e non comprendevano che si potesse fare il contrario.

Tristissima prosaccia della vita! che la virtù debba sempre fare a’ pugni colla necessità! Che ogni raggio di ideale bellezza debba frangersi nel prisma obliquo e tenebroso della realtà!

Mentre Battista si faceva a minuzzoli per gli [138] altri, rovinava sè stesso. La Calandrina faceva miracoli come le braccia che la coltivavano, ma essa pure avea tocca la grandine, e inoltre non potea dare più di quello che avea. Alla fine dell’annata Battista s’avvide che per tirar oltre nell’affittanza bisognava cercare a prestito altra pecunia e cominciò a darsi attorno seriamente.

Ma dove?... da chi?

Il solo che fosse reputato denaroso in paese era il sindaco cavaliere, ma a Battista ripugnava assai l’avere a che fare con quell’uomo. Non aveva mai avuto occasione positiva di lagno; al contrario il sindaco era manieroso e leccato con lui, ma il marinaio esperto del mondo leggeva troppo addentro nei bui misteri di quell’occhio volpigno e non se ne lasciava abbindolare. Però, se non a lui, a chi? Battista almanaccava, ma non poteva raccapezzarsi.

— Ah capisco che bisognerà passare per forza sotto quella forca! — diceva tal fiata con sè stesso. Fare nuovi debiti! e se non si potesse più pagarli? e se mancassi all’onore? e se buttassi nella miseria la mia famiglia dopo d’averla buttata nella povertà?... ma perchè m’ha a toccar questo.... a me?... Non ho io sgobbato tutta la vita? Non lavoro forse a ottant’anni come un negro? Diranno che do via il mio! Baie! A conti fatti le sono inezie! E se fosse anche qualche migliaio di lire, non le ho io forse risparmiate in casa?... non son forse quattro anni che porto questa casacca?... non è vero che in famiglia non si sciupa un’agugliata di refe? Eh sì! ma intanto la Calandrina [139] fa acqua come un bastimento che ha dato nelle secche!... Bisogna correre al porto o andare a picco. Ebbene, coraggio! andrò dal cavaliere.... m’è tanto antipatico.... ma ci vorrà pazienza!... Tutti gli anni non saranno mica sempre eguali!... farò più economia anche in quel po’ di elemosina.... ma i poveretti sono aumentati; come si fa? Ci avrei dei debitori d’andare a svegliare.... ma se li tocchi ti si mettono a piangere ed a piatire e bisogna che scappi se non voglio lasciar loro la borsa.... E v’è anche la pensione di Michele benchè per adesso non si potrà mandargli che la metà.... e s’accontenti mò anche lui! Non ci ha il suo sciabolone.... mangi quello.... Oh guarda che bestemmio adesso!... Orsù, orsù Battista, tira la carretta e non lamentarti, vecchia rozza che sei.

Dopo tre o quattro monologhi di questo genere, Battista aveva già formato il suo piano finanziario discretamente saggio. Egli colla ragione delle accennate disgrazie, egli avrebbe pagato un terzo dell’affitto e chiesto alla amministrazione dei poveri, proprietaria della Calandrina, una dilazione di otto mesi per gli altri due terzi, garantiti mediante cambiali; ci fu consulta di maggiorenti e fu interpellato il sindaco che consigliò calorosamente d’accettare la dilazione e le cambiali.

Anche l’Arena avea il suo piano e contava che un dì o l’altro le cambiali del Santafiori sarebbero da quelle dell’Amministrazione cadute nelle sue mani senza molto discapito. E quando le serrò nel pugno, e con esse l’onore del suo rivale, non potè tenersi dallo sclamare [140] tanto forte che molti l’udirono: — «La Calandrina è mia».

Calunnie, maledizioni, disinganni, percosse, crepacuori, tutto andava a seppellirsi e s’acquetava per il povero Santafiori nel seno della sua famiglia.

Specialmente Giorgio cresceva orgoglio e dolcezza del padre e in lui tutte convergevano le speranze della sua vecchiaia.

A quest’epoca era un giovanetto in sui sedici anni, svelto, agile e vigoroso, meno alto e men tarchiato di Michele, ma non meno compito e più gentile. Ne’ lineamenti portava lo stampo del padre; gli occhi e la fronte sopratutto. Della madre il melanconico sorriso e la voce; i capelli nerissimi, eccezionali nella casa. Bello non potea dirsi, ma geniale e attraente.

Sebben giovinetto, le sue parole, i suoi atti, il suo contegno contenevano tanta maturità di senno, che nessuno dei conoscenti poteva credere non avesse oltrepassata la ventina. Gli stessi sollazzi erano maggiori della sua età e più che sollazzi ei li riguardava come varietà gradite del suo lavoro. La caccia e la pesca egli esercitava quasi come una professione, e a dir vero la preda del suo archibugio o delle sue nasse era sovente il solo pane quotidiano della domestica mensa. Istruzione non eragli mancata, e nei dì della fortuna ebbe maestri in copia, ma più che da questi egli s’era istruito alla scuola del padre. Ed esso aveagli insegnato un po’ di tutto ma bene, e principalmente le lingue e le matematiche, però un’educazione completa non l’ebbe, causa forse i [141] rovesci, ma senza forse la ripugnanza di Battista, veduta la mala riuscita di Michele, di abbandonarlo alla corruzione delle grandi città, e il manifesto proposito di Giorgio di non volersi staccare dal padre.

— Che mestiere vuoi fare? — chiedevagli talvolta il vecchio Santafiori.

— Voglio lavorare con voi, padre mio.

Colui che siasi trovato colla testa in mano a calcolare su quello spinoso e scoraggiante problema, nel quale pur tanti falliscono, che nomasi «scelta d’una carriera», dovrà certamente scandolezzarsi alla risposta di Giorgio. Egli troverà per avventura che tutto il senno del nostro eroe non vale una dramma della vita, e non si terrà forse dal chiamare matti noi stessi che abbiamo l’aria di farne l’apologia.

Noi chiniamo la fronte al giudizio, ma tiriamo dritto. Soggiungiamo anzi, perchè lo scandalo sia completo, che nella mente dei Santafiori padre e figlio l’idea d’una «carriera» come oggi s’intende, cioè come un’arte qualunque più o meno faticosa, più o meno onorata, più o meno splendida, per la quale un uomo può montare sopra uno qualsiasi dei gradini che compongono la scala ambita della gloria e della fortuna, quell’idea non vi era ancora penetrata; eravi anzi interamente sconosciuta.

In luogo de’ soliti consigli che i babbi ripetono ai figliuoli quasi coll’identico linguaggio dei nonni, in luogo di dire: — «fa l’avvocato che intascherai tesori, e finirai in cassazione o in Parlamento» — «fa il soldato e troverai [142] il bastone di maresciallo nel tuo zaino» — «fa il prete che terrai le chiavi del cielo e della terra» — il padre di Giorgio Santafiori, se gli capitava il destro di fare il suo predicotto — perchè anche lui era padre — parlava così: — «Per me vale tanto chi inaffia il campo come chi miete il grano. Che i miei figli siano guardiani di pecore in mezzo a una vallata, o guardiani di uomini in un luogo qualsiasi che chiamisi «casa di Dio o tempio di Temide» è lo stesso. Io penso che la società non sarà mai veramente libera, cioè veramente felice, se non il giorno in cui tutti gli uomini saranno eguali dinanzi al lavoro, e che nel mondo tanto sarà estimato colui che fabbrica la carretta, come colui che vi si fa tirare di dentro. Ma se è vero che si progredisce, e pare che il progresso sia una tartaruga, nè io, nè tu vedremo quel tempo. Comunque, Giorgio, bada a quel che ti dico: il primo dovere della vita è di guadagnarsela e se vi è consolazione quaggiù è nel compimento di quel dovere che chiamasi lavoro».

Avete capito? il dovere del lavoro in casa Santafiori è sostituito alla scelta della buona carriera. Alcuno strillerà, ma che ci abbiamo a fare noi se i nostri personaggi erano così?

Gl’insegnamenti del padre per Giorgio erano vangelo: egli li ascoltava con ammirazione e li adempiva con religione. La madre era certamente tutta nel suo cuore, ma la figura di suo padre era nel suo spirito e padroneggiava tutto il suo essere. Per questo a ogni passo che mutava nella vita, presentiva che egli era ineluttabilmente confuso a quella esistenza sublime, [143] la quale, anche quando la materia fosse disciolta, l’avrebbe guidato oltre la tomba e dominato il suo destino. Il giovinetto comprendeva che il dramma che suo padre aveva cominciato a scrivere con Balilla non era finito peranco; che a lui sarebbe toccato rappresentare la catastrofe; che la società, se non poteva raggiungere il padre, avrebbe un dì o l’altro fatto subire al figliuolo l’espiazione del delitto mai sempre imperdonabile d’aver voluto lottare contro il proprio destino — d’aver voluto essere Socrate in una società di Gorgia.

Però Giorgio non impallidì in faccia alla bieca larva, non rifiutò il sacrificio che il cuore gli pronunziava inevitabile, e si propose come un cavaliere antico di non lasciar macchiare la divisa del blasone paterno. Solo provava il bisogno d’un compagno nel cammino e d’una stella nelle tenebre, e guardatosi d’attorno per la terra e nel cielo, gli si affacciò Giusta. Fu appunto in uno dei giorni che il giovinetto andava vagando con questi sogni che egli trovò smarrita nella notte la poetica fanciulla che gli si mise al fianco e gli brillò sul capo, come la guida e l’astro che egli invocava.

XIX. UNO DEI PRELODATI LUPI.

La storia del Piemonte del 1817 ci pare ben riassunta nelle seguenti parole di Angelo Brofferio, le quali se fossero più solenni o accademiche [144] mal risponderebbero alla meschinità degli uomini ed alla volgarità degli avvenimenti.

«Domata la Francia, — scrive l’arguto autore, — stabilito l’equilibrio europeo, repressi i liberali, soffocate le idee, partiti a poco a poco dal Piemonte gli Austriaci, dalla Liguria gli Inglesi, Vittorio Emanuele si trovò finalmente assoluto dominatore. Il suo governo non ebbe più altri nemici che la fame nelle strade, le petecchie nelle case, i lupi nei boschi, i cortigiani nei pubblici uffici e i ladri da per tutto».

A sentire i racconti dei cronisti, i quali per vero dire ci sanno un po’ dell’artefatto, un’orda di lupi, cacciata dalle nevi e dalla fame fuori dei natii ricoveri alpini, avrebbe in massa trasmigrato verso il piano, vi si sarebbe disseminata come il capriccio o l’istinto famelico la portava, e senza curarsi d’ostacoli avrebbe varcato mano mano la Dora, il Tanaro, la Scrivia gettando fino nelle strade dei villaggi, fino alle porte della città, l’allarme e lo spavento. Nè la lupesca masnada si sarebbe accontentata di assaltare gli armenti e di penetrare negli ovili, ma pungolata dalle viscere affamate, avrebbe insanguinato il dente feroce fin nelle membra di molte dame e di molti bambini sconsigliatamente avventuratisi sui sentieri solitari.

Quando leggiamo sui gazzettini di guerra certe vittorie e certe stragi ci regoliamo alla stregua che il generale Bugeaud applicava ad un altro eroe d’Africa, Saint-Arnaud: «Crediamo una metà e discutiamo l’altra». Così [145] faremo anche in questa guerra lupigna, perchè in fin dei conti non è ancora provato che i lupi sieno più crudeli degli uomini. Certo però che una calata straordinaria ci fu e se non altro ce lo dimostra la famigerata notificazione dell’intendenza di Torino che la moderna eloquenza burocratica potrà uguagliare sì, ma vincere mai.

Continuiamo a saccheggiare il Brofferio e riproduciamo il documento.

«Commossi noi (questo noi dell’intendente che accenni davvero ai lupi commensali?) da sì doloroso spettacolo non meno che dalle clamorose voci delle sbigottite popolazioni e del pericolo sovrastante ai viandanti ed all’inerme gioventù e prevedendo che ogni ritardo si rende vieppiù pernicioso sia per l’aumento della specie che per l’incalzamento della brumale stagione, per provvedere opportunamente a maggiori disastri dell’umanità e dei bestiami

«NOTIFICHIAMO

«1.º Che tre distinti premi verranno pagati a chi riescirà a far preda di uno dei prelodati lupi». E dopo essersi caldamente raccomandato, dice lo storico, di dar opera allo «sgombramento delle provincie da sì implacabili nemici dell’uman genere, per l’amore della gloria, per la dolce soddisfazione di rendersi utili ai nostri simili e la sicura condegna ricompensa dei ben intesi sudori» si ordinava che «il cacciatore o lo armigero dovesse presentare la fiera allo ufficio secondo il solito praticato».

[146]

Che ne dite? Non è questo un projcere margaritas.....? Davvero bisogna essere lupi per non essere commossi.

Comunque, eravamo già nel verno del 1817 quando uno dei prelodati lupi staccatosi dagli altri, o sviato o acuito da appetito maggiore calò fino in Lomellina a poche miglia di lontananza del nostro villaggio.

I campagnuoli paduani, che avevano letto e riletto con la più grande emozione il bando torinese (poichè i lettori là ed altrove non eran più colti degli scrittori) ma che si erano fino allora creduti al sicuro dagli invasori, furono tutti sottosopra alla nuova terribile, inaspettata. Cominciarono a tener sbarrate tutte le porte, a non uscir più di notte, a non venturare più un passo senza portare addosso un arsenale di tromboni, di coltelli e di pistole, e persino a scoprire la miracolosa greppia di Betlemme ed a snocciolare il rosario.

Alle precauzioni della paura vennero però compagne le precauzioni del coraggio. I carabinieri, cui non mancava polso, percorrevano alla sera lo stradone a molte miglia fuor della terra, intanto che otto o dieci dei più arditi, armati fino ai denti, decisero di ordinarsi in due o tre squadriglie sotto la direzione e il comando dei due Santafiori, e di perlustrare le viottole dei campi e i cascinali dei dintorni.

Le pattuglie continuarono per alcuni giorni senza che la temuta fiera si facesse vedere in alcun luogo; poi si cominciò a non parlarne più, e si aggiunse finalmente che avesse cambiato sede e direzione. Per questo la caccia cessò, l’allarme acquetossi, e tutto nel villaggio [147] riprese il primo aspetto di pace e di sonnolenza.

Una domenica, la popolazione dopo messa grande era sulla piazza a ciarlare del più e del meno, quando all’improvviso dal fondo della strada maggiore, quella che abbiam detto esser la spina dorsale del paese, s’ode levarsi un gran trambusto, uno sbattere di imposte, un fuggi fuggi, un accalcarsi a catafascio d’uomini e di donne e di fanciulli, tutti a corsa verso la chiesa e strillanti a una voce disperatamente: — Il lupo!... il lupo!...

La minaccia fu sì repentina che anche i più intrepidi voltarono le spalle e seguirono la corrente dei fuggenti: in un attimo piazza e strade furon vuote: chi era riparato nelle case, chi nella chiesa stessa, dove, a porte chiuse, con un batticuore che facevagli tremar la voce, l’arciprete intonava le Litanie dei Santi.

Non restarono fuori che tre persone; un fanciullino in capo alla strada, immobile colla bocca aperta, gli occhi invetrati, il corpo tutto in un tremito — una donna, una madre che strideva — «il mio bambino!... salvatemi il mio bambino!...» — senza trovare il coraggio di muovere un passo in suo soccorso, e Battista che aveva indarno tentato di arrestare la fuga e inutilmente rinfacciati i codardi, e che s’apprestava a tener testa solo alla belva che l’occhio linceo dello spavento aveva scorta da lontano. È qui il caso di credere al proverbio: «E’ non si grida mai al lupo ch’e’ non sia in paese».

L’animale infatti che spiccava così chiaramente sulla linea retta dello stradone, trottava [148] a passi misurati, lunghi, veramente lupeschi, col muso proteso, la coda bassa, il pelo irto, fiutando senza sviarsi, ogni cespuglio e ogni pietra, mirando dritto al bambino che aveva adocchiato col digrigno sulle labbra e colle fiamme nello sguardo. Dovea essere fieramente affamato se perigliavasi così in mezzo all’abitato di pieno giorno; ma non era tempo quello di chiedere il perchè del moto, come il filosofo sofista; bisognava muoversi.

Intanto che il lupo correva sulla preda, Battista marciava sul lupo. Egli avevo invano cercato intorno alla deserta piazza un bastone, una pietra, una difesa qualunque: affrontava inerme, ma fermo e risoluto l’ignoto avversario.

Giunsero insieme: e intanto che s’arrestava sulle quattro zampe, per prendere la rincorsa e spiccare il salto sulla preda, Battista con una mano agguantava il fanciullo, se lo buttava di dietro in modo di fargli usbergo del suo corpo e riceveva egli stesso nel petto l’assalto della belva.

Un pugno, rimbombante come una martellata, un pugno che avrebbe ucciso di certo un uomo, accolse l’assalitore nel mezzo della fronte, e lo rovesciò ruzzolando nella polvere. Allora Battista veduto l’avversario atterrato, credette approfittare del lucido intervallo per chinarsi ad afferrare un sasso che era a pochi palmi de’ suoi piedi. Fu la sua perdita. Il lupo stordito, ma non impotente, inasprito della percossa, ingagliardito dalla rabbia e dalla disperazione, nel momento stesso che Battista erasi curvato replicò il salto su di lui, e conficcategli [149] le zanne sitibonde dentro la gola, vi restò furiosamente, mostruosamente appeso.

L’atleta ottuagenario, vinto ma non domo, azzannò con la sua mano poderosa la strozza dell’animale, e mentr’egli procombeva sotto la mortale ferita, il suo avversario schizzava dagli occhi il furore e la vita.

Intanto alcuni contadini fattisi cuore s’eran gettati alla lor volta in soccorso del Santafiori: ma era tardi. Quando giunsero il lupo non respirava più, ma Battista era morente. La notizia della tenzone era corsa rapidamente a casa sua insieme a quella della catastrofe. Giorgio sciaguratamente era ne’ campi e quando, richiamato, arrivò, il padre si dibatteva nei rantoli dell’agonia.

Vi sono momenti che non si descrivono, dolori che superano la parola e l’immaginazione, pei quali il sublime nolo consolari quia non sunt di Rachele sarebbe una espressione tuttavia impotente. Ma colui che seppe di quanto religioso amore fosse quell’uomo in quella casa adorato, — colui che conobbe di quale devota riconoscenza l’avesse circondato per oltre trent’anni la donna che gli dovea la sua e la vita di suo figlio, — colui che ha compreso il cuore di Giorgio tutto trasfuso e immedesimato nel cuore di suo padre, — colui che può rompere il terribile velo dell’avvenire preparato a una casa che ha perduto a un tempo il capo, il cuore, la guida, il conforto, — chi ha contate tutte le lacrime degli infelici ch’egli ha asciugate, — chi sa a mente tutte le benedizioni dei poveri ch’egli ha beneficati, — chi sente tutto il prezzo della [150] virtù che si spegne, tutta la grandezza d’uno spirito che rivola al suo cielo — chi può superare la terribile e sublime poesia di quelle parole del martire dei martiri: «Consumatum est» — il sacrifizio è consumato — venga qui, prenda la penna e scriva come si pianse, si pregò, si patì ai piedi del letto di morte, su cui giaceva Battista Santafiori.

La jugulare era spezzata; il medico aveva già scrollata la testa: bisognava morire.

Ci fu a questa sentenza uno scoppio di singhiozzi. Battista si scosse, chiamò collo sguardo — perocchè l’occhio d’un morente è d’arcano senso dotato — tutti i suoi cari, e questi uno per uno, Rosalia poi Livia, poi Giorgio, poi il piccolo Balilla, alcuni vecchi fedeli famigliari infine; — tutti vennero a lui, accostarono la lor bocca alla sua bocca e vi assorbirono l’ultimo bacio.

Battista sorrideva, ma quando gli condussero la madre del bambino ch’egli aveva salvo dal lupo, la sua fronte s’illuminò di una gran luce, aureola incontrastabile, suprema, divina che la schietta riconoscenza di quella povera femminetta posava sul capo, tante volte sputacchiato, del suo benefattore.

Un uomo picchiava alla porta nello stesso momento: era don Fulgenzio che veniva ad offrire la sua ultima mediazione col cielo.

Battista chinò la testa come per dire: che venga. Don Fulgenzio entrò pallido come una delle sue candele. Il cuore gli tremava; egli non sapeva come parlare a quell’uomo che gli avevano dipinto per eretico, e di cui pure sentiva tanto rispetto.

[151]

Però si fece coraggio e chiese agli altri di allontanarsi. Battista fece cenno di no e tutti restarono.

— Non ho niente da nascondere — disse il morente con voce semispenta e trascinando le parole. Vorrei solo che chiedeste perdono per me a quelli che ho offesi.... Grazie della vostra premura.... Se verrà giorno in cui insegnerete che il paradiso è nella propria coscienza e che tutta la religione è in una parola: il dovere.... io dirò ai miei figliuoli di seguitarvi.... Giorgio.... Miche.... Ah! — E l’ultimo suo pensiero fuggì involato dalla morte nel seno dell’eternità.

La famiglia stette tutto quel giorno a contemplarlo in silenzio come le donne di Galilea contemplarono un altro giusto ai piedi di un patibolo. Ed oh quale fantastica e dolorosa visione!

Di quando in quando pareva che le labbra del trapassato stessero per aprirsi ad un ultimo addio — dei chiarori improvvisi brillavano attraverso il cristallo appannato delle sue pupille, e si sarebbe detto che l’anima tornasse a visitare il suo frale per riaccendervi un’altra fiata la vita. — Ora erano le scene epiche e svariate della sua odissea che sfilavano sul suo fronte, — ora il cantico delle sue virtù echeggiava per la mortuaria dimora, — ora le ombre di grandi uomini a cui egli avea preparata la gloria e l’immortalità, scendevano a prenderlo per mano e lo guidavano alle loro sfere luminose dove era fatto partecipe delle loro apoteosi.

Tale fu per tutto quel giorno la fantasmagoria [152] di quella vedova e di quegli orfani, intraducibile per chiunque non ha provato a meditare accanto alla bara d’una cara persona nel silenzio della notte, faccia a faccia colla certezza della morte e col mistero del cielo.

Ma l’ira degli uomini dovea raggiungerlo oltre la tomba e forse, chi sa, perseguitarlo nella sua progenie.

Don Fulgenzio, più per paura di castighi spirituali che per animo maligno, corse a raccontare a Don Spiridione il caso della sua visita in articulo mortis. Disse le ultime parole del defunto, e narrò che era morto senza confessione e ripudiando la santa religione cattolico romana. Sapevasi inoltre che non si era mai presentato alla chiesa e tenevasi da tutti per un luterano. Ora che fare? seppellirlo in luogo sacro non potevasi, e sarebbe stato uno scandalo pei fedeli, ed un tirarsi addosso tutte le censure ecclesiastiche — non seppellirlo era confessare di non aver saputo convertire un miscredente, e di più toccava il dolore di vedersi in parocchia una tomba protestante!

— Ah, che fare! che fare! — sospirava il povero Don Fulgenzio, prevedendo che ei farebbe almeno una indigestione.

Don Spiridione fu per rifiutare la sepoltura — il sindaco se ne lavò le mani — ma radunato il consiglio ecumenico della parrocchia, cioè oltre i due preti, i fabbricieri, i priori della dottrina cristiana, ecc., fu deciso di interpellare immediatamente l’ordinario e di aspettare la sua decisione.

E la decisione venne all’indomani ed era: «Si escluda da luogo consacrato».

[153]

Il consiglio ecumenico era di diviso parere, ma nelle tenebre avreste veduto la livida faccia d’Arena sogghignare come Mefistofele alle spalle di Margherita.

Ci fu un po’ d’imbarazzo e di esitazione per dare la nuova a Giorgio, che oramai riguardavasi come il capo della casa, e si pensò alla scappatoia d’una lettera.

I Santafiori in generale stupirono, ma non si addolorarono a quest’annunzio; solo la povera Livia ne ebbe le convulsioni e Giorgio rispose:

«Signor Arciprete,

«Mio padre soleva dirmi che è benedetto ogni angolo di terra dove si compie una buona azione; credo perciò che tutto il mondo sia degna tomba per lui. Se la nostra famiglia poteva desiderare che egli fosse seppellito nel campo santo comune, non era già per vederlo in morte entrare in grembo a quella Chiesa alla quale in vita non aveva creduto, ma perchè ci sembrava che la compagnia degli uomini che aveva beneficati lo dovesse consolare anche dentro la fossa. Voi scagliate l’anatema, ma esso non raggiunge il suo spirito più che non commuova la nostra curiosità. Quanto a me, signor arciprete, da un anno era nel dubbio religioso e il mio cuore cercava tormentosamente una fede. Le dico però d’aver fatto fin da questo momento il voto di non appartenere mai ad una religione che non perdona nemmeno agli estinti.

«15 febbraio 1817.

«Giorgio Santafiori».

[154]

La sera stessa furono fatti i funerali di Battista, senza corteo, senza ceri, senza canti, di soppiatto, alla muta, come le esequie d’un ladro

«Che lasciò sul patibolo i delitti».

Giorgio avea scavato nell’angolo di una boscaglia attinente alla Calandrina una fossa profonda, vi area piantati giovani cipressi e salici piangenti, e per difenderla dalle ingiurie del passeggiero, ricinta d’una barriera di mirto e d’albospine. Apprestato il tumulo egli stesso volle calarvi la bara di suo padre, mentre la madre e i fratelli la spruzzavano di terra recente, umida delle loro lagrime e consacrata dal loro dolore. Fatto ciò, mentre la candida vela della luna viaggiava tranquillamente per lo stellato firmamento, e la terra obbliosa dormiva nel suo notturno lenzuolo, i pietosi s’assisero come le iliache donne intorno al sacrato ascoltando le infinite voci del sepolcro e riannodando a poco a poco le pagine monumentali di quella vita che era stata tutta un olocausto a cui s’aspettava per sua sola epigrafe lapidaria «il dovere».

XX. DUELLO DELLA PASSIONE.

La tomba di Battista era schifata. Nessuno avrebbe osato attraversare di notte la boscaglia accanto a quei cipressi che forse erano asilo [155] di spettri infernali, e chi fosse costrette a passarvi col sole, giunto innanzi al terreno maledetto, accelerava il passo, stornava gli occhi e borbottava tremando la giaculatoria al suo santo. C’era naturalmente chi alimentava quei terrori e ne faceva suo pro; laonde all’Omelia domenicale di Don Spiridione non mancava mai la sua salsetta di allusioni «all’eretico», le quali poi interpretate e commentate dal satellizio del sindaco cavaliere, perpetuavano nel villaggio i rancori dell’intolleranza religiosa. In taluni men guasti o men arrabbiati la memoria del sagrificio che avea chiusa la generosa vita del Santafiori era più forte della sua creduta dannazione; ma non per questo nessun di loro aveva in pubblico il coraggio di dire il suo sentimento, e se aveva a parlare a Rosalia, si guardava prima d’attorno, e se incontrava Giorgio, o fingeva non vederlo, o lo salutava con un’amiccatina d’occhi, e dritto. Metà dei lavoratori della Calandrina si licenziarono, l’altra metà credevano in tutta coscienza d’aver fatta una transizioncella con Belzebù! dalla quale forse nemmen un secolo d’indulgenza li avrebbe potuti liberare.

Il maggior vuoto lo provarono i poveri, ma ahimè! più nella bisaccia che nel cuore. Essi perciò largirono senza paura e senza ritegno i lor Deprofundis al morto nella speranza di commuovere il vivo; ma sebbene Rosalia e Giorgio continuassero alla meglio la caritatevole tradizione della casa, a coloro non pareva ancora di tirare tutto il profitto dell’abbondante suffragio delle loro preghiere. Era una esigenza ladra certamente, ma se non si scusa [156] si spiega forse col modo con cui la beneficenza era esercitata prima e dopo la morte del padre. Battista aveva il vero genio della carità e sapeva non solo provvedere ma prevedere e alleggerire l’onta — a tutti grave — della limosina con parole e affetti di cui egli solo possedeva il segreto. Giorgio era, prima d’ogni cosa, giovanissimo e soggetto alle impazienze e agli impeti dell’età; poi era uomo, come suol dirsi odiernamente con una parola tanto adoperata e riverita, più positivo.

L’Arena, al fato del Santafiori gioì tutto, ma non seppe, malgrado la vecchia arte, abbastanza contenersi, e si lasciò ire al satanico gesto di inviare, con una lettera di cordoglio alla vedova, il vile prezzo del lupo ucciso che l’editto famoso accordava a suo marito. Rosalia dovette gettarsi alle ginocchia di suo figlio che voleva strozzare lo sfrontato donatore.

Ciò che invece il sindaco cavaliere continuò a celare fu di possedere le cambiali del padre. — Se essi possono pagarle — rimuginava talvolta fra sè — la Calandrina mi sfugge! — Perciò aspettava dando di quando in quando un’occhiata a quei due o tre pezzi di carta, come un generale che medita un assalto ai magazzini delle sue munizioni.

Quanto a Michele, udito il caso del padrino, sia che un improvviso raggio di emozione fosse penetrato nella sua anima fino allora opaca, sia che avesse temuto per la sicurezza della sua pensione, o per l’una e l’altra causa insieme, il fatto sta che egli scrisse come seppe una lettera amorosa a sua madre, annunziandole che avrebbe chiesto un congedo temporario [157] per venirla a visitare ed abbracciarla teneramente. E la credula madre — qual’è quella che nol sia? — pianse sulla lettera lagrime di gioia e sperò che il cielo la volesse ricompensata della perdita del marito restituendole il cuore d’un figliuolo.

Risposegli le cose più affettuose, e come la legge imponevale un curatore pe’ figli di cui essa era tutrice, così partecipogli che aveva scelto lui stesso nanti il tribunale. Essa però non tardò a rinunziare alla speranza, come Michele aveva tosto rinunziato alla tenerezza che fugacemente era venuta a visitarlo nella sua imbecille ed eunuca esistenza.

Una persona sopra ogni altra aveva inteso e condiviso l’alto dolore della perdita dei Santafiori; una persona che già pei vincoli dell’affetto era legata al loro destino ed apparteneva alla lor famiglia; vogliam dire Giusta.

Abbiam già detto che la fanciulla non aveva scoperto il genio segreto ed appiattato del suo cuore, se non quando, sorpresa da Giorgio nella foresta, aveva accettato la sua guida per rintracciare la via. Da allora essa capì che cosa fosse veramente quel turbamento arcano che l’assaliva ogni qualvolta udiva suonare al suo orecchio il nome del giovinetto e s’abbatteva per avventura nei suoi passi. Da allora seppe che quella attrazione invincibile che la forzava a seguitare da lungi le peripezie e ad ammirare la fortezza e la virtù era un sentimento tutto affatto diverso dai comuni, sentimento che non era amicizia o stima o carità soltanto, ma affetto nuovo, indefinibile, prepotente, che tutte le ore la invasava, che le popolava [158] di vaghi sogni la notte, e di profondi pensieri il giorno, sentimento che le pareva fatale, contro cui, pur volendolo, essa non avrebbe saputo lottare, dal quale s’aspettava molti tormenti, è vero, ma che appunto per ciò le tornava più caro; sentimento, infine, che era amore, amore per Giorgio.

Però da quella sera dell’incontro, fino al giorno che la morte picchiò alla casa dei Santafiori, la giovinetta e vide e parlò qualche volta al giovane, a cui s’era anteriormente sacrata, senza che mai nè essa lasciasse tralucere un solo lampo della fiamma che dentro la bruciava, nè Giorgio cercasse con un solo atto innocente di farla divampare.

L’affetto di Giorgio era sbocciato più tardi e cresciuto più presto. In lui c’era un po’ della natura dello elettrico, e bastava il più breve strofinamento per strappargli la scintilla. Egli aveva spesse volte veduta Giusta, l’aveva anche adocchiata, s’era detto spesse volte «ch’era una simpatica creatura», ma d’amore vero mai nè un presagio, nè un proposito.

Fu proprio quando egli si trovò solo, perduto nel deserto con la giovinetta; quando osservò più davvicino le sue forme e respirò l’alito del suo seno; quando vide il virile atteggiamento di quella persona, che pur aveva la pudica compostezza di Beatrice; quando udì, infine, il nuovo miracolo gentile di quella voce profferire con tanta semplicità e tanto intenerimento: «Ve ne ringrazio con tutto il mio cuore»; allora sentì l’interior vulcano dell’anima sua rivoltolarsi e montare; allora amò come se l’avesse agognata e perseguita [159] da dieci anni d’un amore profondo e già antico.

Ma quanto fu subitanea la esplosione, altrettanto fu virile la compressione. Giorgio fece tutto all’opposto di Giusta, e mentre questa si lasciava portar via dalla corrente del suo affetto, senz’altra sponda che il suo virgineo candore, il garzone durava la lotta più ostinata per domare la sua passione e soffocarla.

Qui non ci facciamo ad affermare un’eccezione che parrà strana, ma che non è men vera, ed è che Giorgio amava meglio dubitare sui sentimenti di Giusta che sapere la verità. Perciò tutte le volte che aveala scontrata, o l’avea sfuggita, o si era chiuso in un silenzio cui non mancava proprio nulla per essere zotico e scortese.

Giusta, per converso, aveva letto nella propria l’anima del giovine, e tutta la misteriosa battaglia ch’egli tentava celare era a lei manifesta. Onde se ne tormentava, non già perchè a lei premesse il volgare trionfo di strappare dal labbro stesso dell’amante la confessione della sua sconfitta, ma perchè dubitava che il giovine in quel conflitto soffrisse e aggiungesse volontariamente un altro tribolo ai tanti che seminavano il tramite doloroso della sua giovine esistenza.

Giorgio inoltre aveva una ragione possente per tacere alla fanciulla i sentimenti del suo cuore, e se la ridiceva sovente: «Se essa li accetta, povero e disgraziato qual sono, avvolgo nel mio lugubre destino la sua vita inconscia e tranquilla. Se li rifiuta, ne riceverei tal piaga [160] nel cuore, che il morire sarebbe per me il danno minore».

Durante questo duello secreto della passione Battista soccombette. La di lui morte, oltre all’influsso diretto che ebbe sulle sorti di Giorgio e della sua causa, ne ebbe una possente e decisiva sopra il suo cuore.

FINE DEL VOLUME PRIMO.

INDICE

Storia di questo libro. Pag. 5
 
PARTE PRIMA: IL PADRE
 
I. Odissea d’un giusto. 9
II. Il capitano Gordiglia. 15
III. Presagi di rivoluzione. 26
IV. Il terrore nero. 34
V. Ritorno in patria. 42
VI. Aborto morale. 48
VII. Mercato. 54
VIII. Con e senza corazza. 62
IX. Spettacolo al villaggio. 68
X. L’arrivo. 76
XI. Quod superest pauperibus. 82
XII. Chi era Salomone Arena?... 88
XIII. La famiglia del sindaco cavaliere. 104
XIV. Giusta. 110
XV. L’incontro. 117
XVI. Episodi. 120
XVII. La benedizione del tempo. 130
XVIII. Giorgio. 136
XIX. Uno dei prelodati lupi. 143
XX. Duello della passione. 154

NOTE:

1.  «V’è un fiume nel seno dei mari». Opinione di Maury.

2.  Trattato di Compiègne, 15 maggio 1768.

3.  Massa, nome dato ai padroni dai negri delle Antille.

4.  Monti.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è stato inserito un indice a fine volume.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.